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Dieci regali

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Oggi pensavo a dei regali.
A qualcosa di bello,  di originale da regalare e ho pensato che in tanti  forse volevamo comunicare le stesse cose.
Per far pensare a noi, per le persone che amiamo.
Per comunicare l’essenza della nostra azienda ai nostri clienti.
Allora ho messo giù una lista dei regali che farei. In realtà questa lista sbilenca non dà delle vere indicazioni.
Sono piuttosto delle suggestioni che potranno indicare un metodo nuovo con risultati diversi per ciascuno di noi.

Pensavo che mi piacerebbe regalare:

1 – Un sasso grande, ovale, o dalle forme strane, che sembri una grossa mela o un cuore.
Da mettere in una bella scatola di legno e regalare come fermaporte, fermacarte, ferma ricordi.

2 – Un libro già letto di cui abbiamo sottolineato le frasi più belle.
Può essere un regalo molto personale ma anche divertente, malizioso o semplicemente istruttivo.
Irrinunciabile una dedica di almeno dieci righe.

3 –Una canzone che ci ronza nella testa adesso! 
Da acquistare nel web e regalare on–line scegliendo anche l’attimo in cui  verrà ricevuta. Ovviamente con una bella dedica!

4–  Un bicchiere, una tazza, un piccolo vaso di vetro. Semplici o coloratissimi, da acquistare nella vetreria artigiana a Murano o su una bancarella. Suggerendo di usare il nostro bellissimo contenitore come un portamatite.

5 – Una nostra foto, o quella della persona a cui vogliamo fare il regalo, o assieme… o una foto che sapete provocherà belle emozioni.
La foto deve essere bellissima! Da stampare su di un materiale insolito… Pensateci!

6 – Una maglietta! Anche se non è proprio originale.
Bianca o nera, oppure rossa o viola, ma anche gialla che avremo macchiato e bucato pensando al futuro possessore del magico… unico indumento. Packaging? Multiball trasparente sottovuoto!

7 – Una vecchia scatola di latta, quella dei biscotti di una volta.
Ma che sia originale e trasudi il suo tempo. Riempiamola di malinconia, di foulard  kitsch, di bigliettini con frasi sibilline da estrarre all’occorrenza di un consiglio bislacco o illuminante.

8 – Uno specchio rotondo o quadrato.
Su cui scrivere con vernici indelebili una dedica, un pensiero su cui… riflettere.
Qui il contenuto, il pensiero e la grafica sono importanti.
Usate la vostra calligrafia, scrivendo di getto.

9 – Regaliamo un oggetto qualunque della nostra casa.
Una cosa che ci fa compagnia da tempo. Un oggetto che il destinatario del regalo conosce e a già mostrato di apprezzare. Una piccola lampada, un soprammobile, un cuscino, uno sgabello, un piccolo contenitore, un tavolinetto. Qualcosa che comunque parlerà di noi.

10 – Un piccolo sasso di fiume.
Un sasso ovale o dalle forme strane, che possa sembrare un animale oppure a forma di cuore, o di nuvola.
Buchiamolo, non è difficile. Infiliamolo in un cordoncino o in una catena e mettiamolo in una bella scatola di legno e regaliamolo come fosse un gioiello. Una lunga dedica è indispensabile.

Cosa avete regalato di veramente insolito?
Quante strane occasioni ci sono per pensare a un regalo.

Vi capita mai di voler regalare qualcosa ai vostri clienti per comunicare l’essenza della vostra azienda?
Potremmo farlo assieme.
Qualche volta basta davvero un pensiero.

Il sapore dei caratteri

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I caratteri tipografici hanno proprio del carattere, così che a ciascuno di noi ne piacciono alcuni e altri no.
Succede come con le persone. Ci si sta simpatici o antipatici a pelle, ci si innamora e ci si odia.
Oppure come per i cibi, chi ama la polenta col brasato e chi solo cruditè, così per i font (dal latino fondere – fondere i caratteri in piombo come succedeva con la linotype solo fino a una trentina d’anni fa) i caratteri appunto, a chi piacciono belli grassottelli  e a chi smilzi, chi ama font eterei e aggraziati e chi tosti e tutti spigolosi, a chi dritti e puliti e a chi ondivaghi e arzigogolati.
Tutto ciò a prescindere dal fatto che se ne abbia più o meno confidenza, che si faccia il grafico di professione  o che tocchi scegliere il carattere solo una volta nella vita per scrivere le partecipazioni di nozze, o ancora, come accade sempre più spesso per mille inviti, seri e goliardici, per scritte da apporre in ogni dove, da – SIETE TUTTI INVITATI ALLA MIA FESTA DI COMPLEANNO … – a – PARCHEGGIO RISERVATO AI RESIDENTI – e poi non parliamo del milione e mezzo di scritte che ogni azienda, dotata o meno del professionista di turno o dell’anima pia piena di buona volontà, tocca mettere su Facebook, su Instagram e Pinterest, sul maxiposter… eccetera… eccetera…  e…
Sarah Hyndman ha scritto un libro  – The type taster  –  in cui pubblica i risultati dei suoi esperimenti su come l’identificare una persona, un cibo o altro con un carattere tipografico muti l’approccio a quella persona o a quel cibo e come, in fin dei conti, il font rappresenti in modo simbolico le qualità di quella persona o di quel cibo.
In uno di questi esperimenti venivano date da mangiare delle lettere commestibili e si valutava come venisse percepito diversamente il gusto al cambiare del carattere con cui era composta la lettera.
In un altro esperimento durante un evento di speedy dating  ai partecipanti veniva chiesto di scegliere un carattere che li rappresentasse e si vedeva poi quali tipologie di caratteri/persone si attraessero.
Bello no!

La Hyndman era felice di notare quanto interesse ci fosse per questo tema da parte dei non addetti ai lavori, tanto da cambiare la percezione della tipografia, ora non più…“la meno attraente tra le discipline grafiche”.

Una nota personale, io sono grato a Jonathan Ive, “deus ex machina”  di Apple per aver scelto l’Helvetica Neue, il font più elegante, leggero ed esile  che esista,  per identificare iPhone  e farsi imitare da un milione di grafici rendendo così  più bello il mondo. Amo la sua versione ultra light quasi illeggibile e spesso pure difficile da stampare con quei fili sottili come capelli biondi.
Ecco se dovessi decidere di farmi rappresentare da un font sceglierei proprio l’Helvetica Neue, accostando bold e ultralight… forza, decisione e leggibilità uniti alla leggerezza impalpabile di un respiro.
Il gioco funziona anche con tanti altri caratteri.

E  tu? Di che font sei?

Leggi anche – “Helvetica Neue, il nuovo font di iphone”

IL COLORE DELLE PAROLE

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Il tono della nostra voce ci distingue, meglio scegliere con cura il colore delle parole.
Stamattina un’amica che scrive su un blog frequentatissimo mi parlava di stile, di registro, di mood. Mi diceva, sì va bene quel pizzico di umorismo e di ironia ma badando a non esagerare, a non usare mai toni caustici o sarcastici.
Aveva ragione, il suo stile lo esige, le persone cercano nel suo blog l’aria leggera e piena di sole di un sabato mattina a metà Aprile con le ombre e il sole che giocano tra i palazzi storici del corso mentre aprono le botteghe alla moda e il fioraio all’angolo fa a gara con la pasticceria di fronte a prenderci per il naso.
Lei usa parole azzurre, lilla, pervinca che si alternano a quelle che sanno di pane appena sfornato, zuppe, caffè, vaniglia e il ritmo è da brezza primaverile, un‘aria già tiepida ma frizzante.
Perfetto! E poi novità, novità, novità…e autoironia e leggerezza…
Una scrittura mai stucchevole sempre in perfetto equilibrio tra dolce e salato.
Poi invece, cambiato blog, c’è chi tira merda e prende a scudisciate in faccia con post al vetriolo e tweet che magari ci fanno pure ridere ma sono come quando sbatti lo stinco e ti giri, sorridi… no! Fatto niente… mapporcasozzadiunaputt…
Ma ce lo siamo cercato noi eh! Perché lui scrive così, di quelle cose lì perché sa che ci piacciono.
Sa che corriamo a leggere l’ultima stronzata (scritta da dio), quelle tre righe che ti spiegano il sesso o la morte o solo il niente di un martedì mattina…
Volgarità esibita con destrezza, sarcasmo, nichilismo, tagli netti come rasoi… un altro mood, nient’altro che parole e stile diversi, altri ritmi e altri colori.
Parole nere o bianche, rosse, color terra, viola scuro. Parole sparate a raffica e sospese nel nulla di quei tre puntini… che ti lasciano immaginare quello che vuoi.
Parole che pensavo servissero solo a stupire e che invece intrigano adolescenti e li portano dritti dritti a un e–commerce di t–shirt e felpe e jeans skinny e microgonne in lurex e accessory decisamente dark.
Pubblico generalista? Piccole e grandi nicchie? Tutto ha una sua voce, un colore che se ne sia consapevoli o meno.
Chi legge il blog intrigante e leggero per sapere dove trovare il regalino giusto, per stupire ed essere sempre aggiornato all’ultima tendenza non è detto disdegni poi gli antri bui dove bollono i calderoni mefitici e dove lo stregone di turno si trastulla rovesciandoci lo stomaco come un calzino.
Siamo fatti di tante cose e ne cerchiamo sempre di nuove.
Però se vogliamo attrarre le persone interessate a noi, ai nostri prodotti e ai nostri servizi è meglio se proviamo ad essere riconoscibili, a vestire anche il nostro linguaggio sul web con i nostri colori scegliendo le parole giuste.
Al di là degli estremi ci sono un’infinità di gradazioni possibili, di toni giusti, ma soprattutto di parole e stili che ci appartengono e in cui ci riconosciamo.
Possiamo essere allegri allegri e scrivere da far ridere a crepapelle oppure far sorridere soltanto, usare parole che emozionino fino alle lacrime o pervadano di una sottile malinconia. Possiamo essere dei tecnici competenti ed usare un tono dottorale o essere ugualmente preparati e comunicare tutto il nostro sapere con leggerezza e autoironia. Possiamo decantare la bellezza e la preziosità delle nostre collezioni con processioni di superlativi e parolone che sanno solo su Wikipedia o inventarne di preziose, semplici e limpide come diamanti. Possiamo descrivere le qualità tecniche della nostra produzione usando il linguaggio degli addetti ai lavori o colorando con i toni del nostro stile anche la descrizione della lavorazione più hi–tec.

La nostra identità e quella della nostra azienda è fatta anche dalle parole che scegliamo, dal tono, dal ritmo della nostra voce che diventa  scrittura e immagini sul nostro sito internet, sul blog, sui social, sulle news che ci rappresentano e mostrano al mondo la nostra faccia.
Cerchiamo che sia riconoscibile…  che sia davvero la nostra faccia.

Creativo (sostantivo) VS creativo (aggettivo)

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“Creativo” è un aggettivo non un sostantivo, almeno così dovrebbe essere.
Sono uno che ha sempre pensato che chi si loda si imbroda per cui in genere ho preferito volare basso tenendo a bada un ego ballerino e lasciando che fossero gli altri a dirmi se il mio lavoro valesse qualcosa, se vi fosse un qualche contenuto che meritasse l’aggettivo “creativo”.

Invece tornando alla lapidaria affermazione iniziale dovrei nascondermi per sottrarmi al giudizio universale.
Se dovessi mettere in fila tutte le volte che mi sono attribuito l’etichetta di “Creativo” (sostantivo) la riga sottile di questa parolina rossa (di vergogna) arriverebbe in capo al mondo.

Provo a rimediare, a giustificarmi, a fare chiarezza…

Di certo sono un architetto visto che lo IUAV (l’Istituto Universitario di Venezia) una trentina di anni fa mi ha conferito il titolo cum magna laude, bacio accademico e piccola pubblicazione.
Ma poi cosa vuol dire essere un architetto? Quanti sono gli architetti che veramente possono dire di saper svolgere tutte le funzioni inerenti il loro mestiere?
Io no di sicuro. Come architetto mi sono quasi sempre occupato soltanto di tipologie distributive, di composizione, degli aspetti estetici e della rappresentazione del progetto. Tanta grafica, fotografia, costruzione di modelli, disegni, disegni e disegni usando tutte le tecniche immaginabili. Allora cos’ero? Un esperto di sistemi distributivi? Un grafico? Un prototipista? Un fotografo o un pittore?
Un po’ di tutto questo e tanto altro ma mi etichettavo semplicemente come architetto, anche perché la cosa rassicurava me e i miei clienti.
Alla fine intervenivo nella scelta dei materiali, delle finiture, dei colori… intonaci, pietre, vetri, legni, tessuti… degli arredi, dei corpi illuminanti.  Allora cos’ero? Un arredatore?
Boh! Qualche volta vi diró mi sentivo creativo (aggettivo) davvero.
Qualche volta soltanto neh!
Poi la mia attivitá principale è diventata quella di disegnare gioielli e altri oggetti di produzione industriale, progettarli, rappresentarli, seguirne l’industrializzazione e la  produzione vera e propria e alla fine del processo produttivo pensare a come vestirli, esporli e comunicarli.
Cosa sono allora? Un designer? Qualche volta faccio il modellista, il grafico, lo scenografo, il copywriter. Sì, Alla fine sempre piú scrittura, piú immagini, piú emozioni che oggetti.
Qualche volta sono creativo… Ogni tanto mi capita di fare cose creative davvero.
Eppure non é per questo che tante volte rispondendo alla richiesta di indicare cosa faccio rispondo imperterrito – il creativo – senza darci troppo peso, senza gongolare e senza vergognarmene troppo.
Scrivo creativo su qualche profilo che mi tocca compilare,  cosí, tanto per riassumere, per non privilegiare un aspetto rispetto ad un altro della mia attivitá.
Il più delle volte scrivo architetto, come sulla carta d’identitá, o art director che fa piú figo e corrisponde in gran parte a quello che faccio.
Allora confesso, sono un architetto, un designer, un grafico spesso, tante volte un copy, un direttore creativo e un sacco di altre cose che provo a fare nel migliore dei modi facendomi aiutare da un sacco di gente e… qualche volta sono perfino creativo (aggettivo).

Questo post mi é venuto di getto dopo la lettura di un articolo di Annamaria Testa la Creativa più creativa d’Italia sul suo sito nuovoeutile.it
Lei sì, merita l’etichetta, non l’unica. (Sperando non si offenda e la accetti di buon grado)

Ispirazione. Cos’è? Cosa c’entra con il design?

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Ispirazione roba strana. Da poeti ottocenteschi con la tisi.
Ma da dove viene la mia ispirazione?
Le cose che disegno, siano gioielli, sedie, bricchi d’argento o flaconi spray, vengono dalle mie mani e dalla pancia, qualche volta vengono dalla pioggia, dal fuoco e dal vento.
Se immagino una nuova seggiola, un tavolo, una lampada o una borsa insolita, l’odore dei materiali, la consistenza delle loro superfici, sia cuoio, ferro o legno, si mescolano con l’umore della giornata, il suono e le parole di una canzone, il riflesso di uno specchio, l’immagine di una donna… e poi negli oggetti che ho intorno, qualcuno perfetto, come un puntapanni di legno, una forbice, un rotolo di nastro adesivo…
Ma lo sapete quanti tipi di forbici esistono? Decine e decine di forme per compiere lo stesso gesto su materiali e in modi diversi.
Accorgersi che sarebbe possibile trasformare una forbice per farle tagliare in un modo diverso  un qualche nuovo materiale… è ispirazione.
Il mio è un lavoro che non ha pause, non finisce la sera alle otto, quell’immagine perfetta può presentarsi in qualunque momento.
Qualcuno la chiama ispirazione e ne ha un’idea strana. Quella di un personaggio perso con la testa tra le nuvole che aspetta la rivelazione… Cazzate!!!
Sì, qualche volta sembra avvenga così ma vi giuro che se non state almeno otto ore al giorno a disegnare, cercare, costruire, modellare, provare, scartabellare, discutere… inutile sperare, non vi apparirà nulla.
Bisogna accumulare, accumulare e accumulare informazioni, immagini, sensazioni e informazioni tecniche, sperimentare forme e gesti, scoprire e capire le forme delle cose che assomigliano all’idea dell’oggetto che vorremmo creare. Andare a guardare cosa hanno fatto quelli bravi, quei designer, quegli architetti che amiamo da sempre, gente che è stata capace di dare forma a dei mondi. Padri che ci sono capitati  addosso e altri che ci siamo scelti.
Per quel che mi riguarda, Carlo Scarpa, come ogni architetto veneto che si rispetti. Un mago della materia, delle forme, della poesia della natura, un artigiano colto. Rituale, ogni anno, la visita alla tomba Brion e alla sua. Poi Aldo Rossi, mio professore negli ultimi esami di composizione architettonica che mi hanno accompagnato alla laurea. Un padre scelto per il suo insegnamento rigoroso e la capacità di indicare le strade della trasgressione. Ho amato alla follia i suoi disegni, i suoi plastici, la sacralità del suo studio a Milano vicino alla torre Velasca. La caffettiera Conica resta il mio fermacarte preferito.
Ecco! Un grande a cui ho avuto la fortuna di stare vicino. Un Pritzker Prize (l’oscar dell’architettura) morto troppo presto, quando avrebbe potuto darci ancora così tanto.
Design ricerca e ispirazione per me sono fatti anche di questo, di gente che ha lasciato un segno, perché incontrata davvero o incontrata sui libri o nelle cose che hanno fatto.
Poi si cancella tutto e resta quel che resta, roba solo mia.
Un segno, un ricordo, la forza di uno scarabocchio, la lucentezza di una superficie, la trasgressione di un taglio, la banalità di una simmetria.
Piccoli segni e progetti che si accumulano e diventano la caratteristica di uno stile, il segno di una personalità.
Metto a disposizione tutto questo mondo a chi voglia fare ricerca e sviluppare idee. Decenni a cercare di capire cos’è bello e cos’è brutto, cosa funziona e cosa no, le cose che mi piacciono e quelle che non sopporto  e soprattutto perché. Un modo di mettermi ad ascoltare le necessità, i sogni, le ambizioni, i progetti, farli miei e sapere dove andare a far nascere l’ispirazione.
Alla fine, mescolando tutto, l’esperienza e la sensibilità di artigiani e imprenditori con le mia storia creativa, mettendo insieme la mia e la loro ispirazione, dopo un bel match di solito vengono fuori idee interessanti.
Cose che funzionano davvero.

Nell’immagine  –  anello Crumple – Paolo Marangon design for NANIS
(la sinuosità e la sensualità delle curve – l’archetipo femminile)

Guarda CRUMPLE RING

Ancora sulla creatività, ovvero l’arte di scegliere.

 

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Mi fa sempre sorridere la famosa citazione di Henry Ford a proposito della sua celeberrima T Model, di cui diceva che:

Ogni cliente può ottenere un’auto colorata di qualunque colore desideri, purché sia nero.

Se penso a quante infinite combinazioni di scelte dobbiamo compiere ogni giorno, mi viene quasi spontaneo chiedermi se sarebbe più semplice avere meno opportunità, meno opzioni, meno decisioni da prendere cercando di intuire quale possa essere la più vantaggiosa, la più efficace, la migliore.
Mica facile, saperlo prima, no?
Eppure a volte tra i campioni e i progetti, tra le mazzette di colori e di materiali, tra colori e gli schizzi leggo nello sguardo dei miei clienti un briciolo di esasperazione, e so già che cosa stanno per dirmi: “Ci pensi lei, faccia lei la scelta migliore”.

In altre occasioni, invece, mi accade di lavorare con clienti più consapevoli dell’identità del brand, delle scelte stilistiche che concorrono a determinare l’immagine aziendale nei vari ambiti di comunicazione in cui il progetto a cui stiamo collaborando verrà declinato. Può essere una brochure, un catalogo, uno stand fieristico oppure il design di una nuova collezione di prodotti, o molto altro ancora, ma anche in questo caso lo stile dell’azione comunicativa è il risultato di una serie di scelte: il mio compito è quello di selezionare le opportunità coerenti ed adatte all’identità del mio cliente, alle tendenze del settore di riferimento, ma anche alle sue esigenze sia tecniche che economiche.

Non è detto che le cose belle debbano per forza costare tanto: spesso la mia esperienza professionale e la costante attenzione alle tendenze mi hanno permesso di sfruttare al massimo budget contenuti per ottenere risultati sorprendenti. Minima spesa, massima resa è un imperativo categorico più che mai attuale, e anche questo aspetto della creatività dipende dal tipo di scelte che operiamo con e per i nostri clienti.

Un creativo dunque è soprattutto qualcuno che ti aiuta a compiere la scelta migliore, adottando un punto di vista magari insolito e originale, proponendoti idee e soluzioni a cui non avevi pensato o che non sapevi esistessero: è il gusto di stupire prima il mio cliente e poi il suo pubblico a rendere appassionante ed intenso il mio lavoro.

Sia che io stia scrivendo un testo per la tua comunicazione, che ti stia proponendo una soluzione di packaging o che stia realizzando il layout grafico della nuova campagna pubblicitaria, la parte più importante del mio lavoro consiste proprio in una serie di scelte consapevoli. Penso ad esempio al carattere da usare, al colore giusto, al tipo di illuminazione o al taglio fotografico da indicare al fotografo per uno shooting, alle texture di arredamento per lo sviluppo di un concept store, e via dicendo.

Il creativo non è mai solo colui che sceglie al posto tuo, ma quello che ti assiste, ti guida e ti supporta, mettendoti nelle condizioni di avere tutti gli elementi per fare la scelta migliore possibile.

A te spetterà l’ultima parola su tutto, naturalmente, e sono certo che ti sarà molto più semplice scegliere dopo che avremo eliminato insieme le opzioni inutili e “sbagliate” rispetto alle tue necessità di quel momento (senza dimenticare di ragionare in un’ottica a medio e lungo termine quando le circostanze lo richiedano).

Mi piace concludere questa breve riflessione con la citazione di una frase del filosofo tedesco T.W. Adorno:

La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta.

TUTTI IN FIERA

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Settimane convulse di fiera in fiera.. fiere che si accavallano a Milano, a Vicenza, a Rimini… 
Un lavorio frenetico intorno agli ultimi ritocchi sugli stand, alle  nuove collezioni, alle immagini, alle brochure, stampe, video, modelle, receptionist … tutto un mondo da inventare che durerà quattro, cinque giorni e, si spera, alimenterà il lavoro dei prossimi mesi.
Cose che filano via lisce che proprio non ci speravi e rogne da improperi in tutte le lingue immaginabili, con un uso colorito e greve di tutti i dialetti natii che da buon lombardo/veneto non mi risparmio proprio.

Alla fine ci si arriva sempre.
In un modo o nell’altro l’azienda mostra la sua faccia.
Bella, liftata, senza nulla fuoriposto da sembrare finta o tutta sgarrupata come ci fossimo svegliati di colpo cinque minuti prima e corressimo all’appuntamento della vita con le braghe del pigiama in mano, i calzini spaiati con la faccia e l’acconciatura di chi ha sbattuto contro un tram come in quella vecchissima pubblicità che recitava:
– Scusate! Abitualmente vesto Marzotto! –  e mostrava uno stralunato impiegato di banca nel pentolone di una tribù antropofoga.

Poi c’è chi arriva in fiera esibendo il semplice splendore della faccia di tutti i giorni.
Niente trucchi pirotecnici, niente trovate esilaranti, solo se stessi, così come ci si presenta tutti i giorni al pubblico, alla clientela che ci riconosce subito con una certa soddisfazione. Si chiama Corporate Identity e non è una cosa che si trova per caso o si compra dall’agenzia strafiga, obbligatoriamente milanese, che impacchetta l’immagine della tua azienda con un bel fiocco a pois! E’ un percorso più o meno lungo, più o meno costoso, un cammino di persone che incontrano altre persone e insieme raggiungono la consapevolezza di dove vogliono andare, di chi vogliono essere, di cosa vogliono fare.

E al centro di tutto ci sei tu! Il paròn! Come si diceva affettuosamente una volta.
Padrone di un’idea che ti assomiglia, con la voglia di svilupparla e vederla crescere.
L’identità aziendale, il branding… ecc… ecc… e tutte le parolacce del marketing che vien voglia si frantumino i denti a chi le pronuncia, hanno un senso solo se partono dalla personalità dell’imprenditore, dai suoi valori, dalle sue passioni, così che sviluppando un progetto di marca, di identità aziendale si percepisca che è una cosa vera, una bella faccia che dica qualcosa, non un ghigno plastificato da contrabbandare per sorriso.
Un’azienda che produca quello che sa fare meglio, come lo sa fare meglio, senza inseguire tutti i mercati, piegandosi a tutti i venti col rischio di non avere più identità e nessun mercato.

Ecco, mi sono lasciato trascinare dalla foga!
Normale, siamo in fiera, se ne vedono di tutti i colori e si perde un po’ la testa.
Chi è andato a vestirsi di tutto punto alla boutique appena aperta in centro, chi si è messo i primi stracci che ha trovato e chi si veste da sempre in un certo modo, o almeno prova a capire a sperimentare come vuole essere, chi vuole essere, riuscendo a mostrare identità per essere riconoscibile in fiera e… dappertutto!

W L’ITALIA, fare branding per l’italian style

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Altro che Italian Style!
Tiriamo fuori il tricolore e gridiamo W L’ITALIA ogni quattro anni solo quando arrivano i mondiali di calcio.
Anche le imprese che esportano la nostra produzione più raffinata sventolano la bandiera italiana piuttosto raramente, non mettono il simbolo dell’italianità in evidenza sui loro prodotti, sul packaging, sulla stampa, sui loro siti internet e francamente sembrano fregarsene di affermare il valore della creatività italiana nel mondo.
Nonostante il riconoscimento assoluto dei nostri marchi più prestigiosi, non siamo riusciti a creare un’aura commerciale intorno al  nostro tricolore.
Non un marchio del Made in Italy che già esiste e non ha nulla a che fare con la bandiera ma un uso creativo diffuso e diversificato del bianco, rosso e verde che esprima la gioiosa affermazione della creatività italiana e dell’italian style.
Ok, non è facile con un simbolo così poco grafico, così simile a tanti altri.
L’esempio più eclatante di un uso commerciale diffuso del vessillo nazionale è l’Union Jack, proprio la bandiera dei nostri avversari di domenica notte. La “perfida Albione” ha piantato la sua bandiera in tutto il mondo più con la musica dei Beatles e dei Rolling Stones che con le conquiste coloniali. La bandiera inglese è diventata un simbolo dissacrante di libertà e creatività negli anni sessanta diffondendo ovunque il rock esplosivo di Mick Jagger e la moda trasgressiva di Mary Quant. Anche la “Stars and Stripes” americana è diventata un simbolo grafico, un vero e proprio brand commerciale sull’onda dell’egemonia culturale dilagata in occidente dopo la seconda guerra mondiale.
Ora, con lo spostamento repentino del baricentro commerciale mondiale verso oriente, c’è una inaspettata richiesta di storia, di cultura, di un innato senso estetico, di un italian style di cui siamo immeritatamente portatori. I nostri brand storici come Ferrari, Armani… insieme alle giovani aziende emergenti dovrebbero usare più spesso il tricolore per identificare la creatività diffusa che ci contraddistingue.
Tricolore come impronta di cultura, storia e bellezza necessarie al mondo non come icona nazional–popolare autoreferenziale. Giochiamo con i nostri simboli, lasciamoceli rubare, facciamo sì che un’onda lunga di creatività tricolore affermi l’Italian Style inondando il mondo a partire ancora una volta da là dove sorge il sole e ci amano di più!

PS – Con l’Inghilterra vinciamo noi 2 a 0.

Perché ci affezioniamo alle cose?

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Perché ci affezioniamo alle cose?
Il primo pezzo di design che mi sono comprato trent’anni fa é il tavolo su cui sto scrivendo. Grande, quadrato, nero, disegnato da Carlo Scarpa per Simon, è uno degli oggetti a cui sono rimasto ancora un po’ legato. Certe cose ci appagano esteticamente, ci accomunano a persone che stimiamo, danno un senso di appartenenza. Ricordano un pezzetto di vita, un momento particolare. Niente psicanalisi a buon mercato, mi piacciono le linee semplici su cui lasciar scorrere le dita e le scelte progettuali controcorrente. Le superfici liscie come i sassi del fiume.  Cose che per lo più mi sono state regalate. L’Arco di Castiglioni, con qualche botta e un filo svirgolo per i tanti traslochi e certo meno lucido di quelli che brillano nelle vetrine. Gli Imbuti di Caccia Dominioni, canne battute dal vento che ho fatto aggiustare un sacco di volte, eppure restano lampade da terra semplici ed eleganti.
Perché ci affezioniamo alle cose e continuiamo a cercarne di nuove? Immaginiamo tavoli dalle forme strane che si allungano e si possono smontare, invenzioni già realizzate chissà quante volte. Col passare del tempo, invecchiando, diventano oggetti che regalo volentieri, legami che diventano solo ricordi, slegati dalla necessitá del possesso. Lampade, poltrone, sedie, un tavolino ovale tutto d’oro con lunghe zampe di gallina,  oggetti con un posto preciso nella storia del design che hanno appagato a lungo la mia voglia di bellezza e che adesso, con uno striscio qui e un’ammaccatura lá, mi vien voglia di regalare ai miei figli.
Perché ci affezioniamo alle cose? Forse solo perchè certi oggetti ci assomigliano un po!

Stagione di Fiere

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Questa è stagione di Fiere ed Eventi importanti. Una dopo l’altra si snocciola il meglio della produzione Italiana, gioielleria, abbigliamento, oggettistica, calzature, pelletteria, design, arredamento, vini e cibi di qualità, solo per citare alcuni dei settori più importanti che in questi primi mesi dell’anno espongono la loro produzione.
In sessanta giorni ho visitato cinque eventi espositivi immergendomi in un caleidoscopio allucinante di immagini. Mi sono sfilati davanti migliaia di stand, dal più piccolo tre per tre dell’azienda artigianale alle strutture delle multinazionali grandi come mezzo campo da calcio.
In comune spesso l’invisibilità!
Com’è possibile essere invisibili occupando mezzo padiglione? Direte voi.
Semplice! Facciamo tutti la stessa cosa!

Ovviamente non proprio uguale, uguale. Qualche differenza anche sostanziale c’è, andando ad osservare bene qualche stand è più alto, qualche altro è più aperto, qualcuno è pieno zeppo di colori e di cose, qualche altro sembra una stanza vuota ed infine ci sono poi stand davvero innovativi e interessanti, pochi ma ci sono.
Allora non è vero che gli stand sono tutti uguali! Direte voi.
Invece sì! Facciamo tutti grande attenzione ad esporre bene i nostri prodotti, ad accogliere nel modo migliore i clienti, ad organizzare i nostri spazi per lavorare con efficienza. Ci facciamo tutti le stesse domande e più o meno ci diamo le stesse risposte, finendo per assomigliarci come gocce d’acqua.
In pochi diamo importanza ad esporre la personalità del nostro marchio. Ci chiediamo troppo poco: chi sono? Quali sono i miei punti di forza, i valori importanti che mi caratterizzano. Come posso differenziarmi dai miei concorrenti? Riflettiamo troppo raramente intorno all’identità della nostra azienda.
Se in più imprese ci facessimo queste domande avremmo immagini più vivide della nostra presenza in fiera. Ci sarebbero stand davvero interessanti e racconteremmo storie diverse. Ciascuno di noi sarebbe presente sulla scena del mercato con una propria forte individualità.
Tutto ciò è fondamentale se vogliamo affermare il nostro marchio, per essere riconoscibili in ogni occasione, nelle fiere ancora di più!

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