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IDEE ESAGERATE

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Le idee esagerate sono le uniche che ci permettano di non sbagliare.
O di sbagliare tutto che è un altro modo di fare le cose ottenendo un qualche risultato di visibilità.

Tutto rosso!

Tutto nero!

Assolutamente trasparente!

Buio che non si vede niente!

Un muro bianco e basta!

Oro, decoro e ghirigoro!

Pop! Flop! Coca-Colori e lettering raw!

Un sacco di luce e di colori strani!

Impaginato così! Tutto perfettamente diviso a metà!

Voilà! Vintage e ramage!

Le idee buone da comunicare sono spesso idee esagerate.
Esagerare, portare alle estreme conseguenze un’intuizione, un gesto, un segno è l’unica strada che permette di tenere insieme tutti i pezzi di un progetto. 
L’unico modo per dare identità ad un lavoro.
Ci vuole consapevolezza, rigore, capacità di rinuncia.
Fatta una scelta l’esercizio è: essere conseguenti!
Magari l’idea è proprio non esagerare: ESSERE BON TON!
Ma esageriamo lo stesso! Esercitiamoci ai limiti del kitsch, accarezziamo una mediocre perfezione quasi a voler riprodurre gli spazi di un nuovo The Truman Show.
Coerenza a tutti i costi!
Solo alla fine quando la nostra idea esagerata è lì perfetta, realizzata, potremo permetterci quello che ci siamo tenuti dentro fin dall’inizio. Lo sberleffo, una piccola, enorme  trasgressione, che risalterà  tanto più tutto intorno sarà perfettamente coerente. 

IL NOME GIUSTO

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Quando sono nato, il nome giusto per me si era già deciso da un pezzo, o meglio l’aveva deciso mia nonna, mi sarei chiamato Maurilio, come il vescovo di Torino di allora. Sennonché all’Ospedale Maggiore di Novara poche settimane prima della mia nascita era sorto il sospetto, con relative denunce, che fossero avvenuti scambi di neonati. La direzione dell’Ospedale per rassicurare la gente si era inventata di scrivere il nome immediatamente dopo il parto sulla pancia del neonato con un pennarellone indelebile. E fu proprio nell’istante in cui mia madre avrebbe dovuto dire Maurilio con piglio sicuro che le uscí un flebile Paolo che l’ostetrica andò a stamparmi addosso per sempre. Con buona pace per mia nonna!

É una storia che raccontavo sempre ai miei figli quando erano piccoli, mostrando la pancia e invitandoli a cercare il segno leggero dell’indelebile che secondo me si vedeva ancora benissimo!

Dare un nome alle persone, alle aziende o alle cose é sempre un’avventura.

Dare il nome giusto ad un prodotto, a un’idea, a un personaggio, a un’azienda, è l’azione piú creativa che si possa compiere. 

Senza un nome le cose, le persone, le idee non esistono.

Ci sono nomi di prodotti,di personaggi, di istituzioni che tutti conosciamo. Nutella, Nike, Algida, Aspirina, Coca–Cola, Greenpeace… e poi Marilyn, Gilda…
Alcuni sono diventati famosi per le casualità della vita, altri sono stati creati per diventare famosi.
Un nome per attirare l’attenzione, per comunicare qualcosa deve suscitare delle emozioni, evocare, creare un qualche effetto.
Nella scena del film “Bianca” di Nanni Moretti che interpreta un prof. di matematica, lui arriva nella sua nuova scuola e appare il tipico edificio scolastico e lentamente la cinepresa svela l’intestazione  –  SCUOLA MEDIA STATALE MARILYN MONROE – qui l’effetto spaesamento è immediato e totale.
Come per qualsiasi tipo di progetto di comunicazione, anche per inventare un nome è fondamentale giocare con gli stereotipi – quelle immagini così fortemente codificate, rigide e largamente condivise all’interno di gruppi omogenei – tali che negandole, travisandole, ribaltandole ecc… si ottengono effetti immediati ed eclatanti.

Senza stereotipi sarebbe dura!

E’ grazie agli stereotipi che otteniamo l’effetto di sorprendere e far ridere se chiamiamo Fufi un mastino napoletano o Thor un chihuahua.
Dare il nome ad un’azienda significa far volare la fantasia, sentire qual è la sua essenza, analizzare il mondo in cui si muove e fare attenzione a poche semplici regole.

– EVITIAMO NOMI TROPPO LUNGHI
–  A meno di poterli sintetizzare in un acronimo, una sigla, che diventa il vero nome. Fabbrica Italiana Automobili Torino avrebbe dato qualche problema in più di FIAT. Tanto più oggi che deve diventare il nome di un sito, di un indirizzo e–mail, di un blog…

– ACCERTIAMOCI CHE IL DOMINIO SIA LIBERO – E’ una cosa che si fa in dieci secondi sui siti specializzati nella registrazione di domini. Inutile innamorarsi di un nome che non si potrà mai usare nel web.

– NIENTE NOMI CHE SUONINO MALE – Sembra ovvio ma non lo é. Ricordiamoci che i “Baci” Perugina, nome azzeccatissimo, in origine erano stati commercializzati come “Cazzotti”.

– ESSERE ORIGINALI – NON COPIARE – Utilizzare il nome di un brand famoso magari aggiungendo una vocale o una consonante all’inizio o alla fine piú che illegale é ridicolo!

Essere originali ci dá la possibilitá di investire sul nostro marchio senza temere di veder spazzare via tutto sul piú bello da rivalse legali.
É importante trovare il nome giusto, che suoni bene, magari con una bella storia cucita addosso. Aiuta di sicuro! Sia per creare un nuovo brand, una nuova attivitá, che per dare personalitá e riconoscibilitá ad un nuovo prodotto.

Ci sono mille modi per trovare spunto ed inventare il nome di un marchio con le carte in regola per avere successo ma quello che paga veramente é immaginare il mondo che sta intorno a quel nome, la storia che lo origina, una motivazione che vada al di lá del bello e del brutto!

Si vende che è una bellezza

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Un prodotto curato, ben vestito si vende che è una bellezza!
Tutti abbiamo qualcosa da vendere tutti i giorni. Se siamo aziende produttrici le nostre merci ai negozi, se siamo negozianti una certa gamma di prodotti, se siamo artigiani la nostra manualità e la nostra esperienza, servizi se offriamo servizi, se siamo professionisti le nostre competenze.
Tutti vendiamo noi stessi.

E la mattina prima di uscire di casa tutti ci diamo un’occhiata allo specchio per garantirci che la nostra immagine corrisponda a quello che vorremmo comunicare di noi, da Miss Mondo al Gobbo di Notre Dame funziona più o meno così per tutti.
A parità di prezzo e con le stesse qualità intrinseche, gli oggetti, i servizi, e le professionalità che si offrono in modo più curato o mostrando un’immagine più appropriata vendono molto di più.
Direte che è ovvio.
Mica vero!
Basta fare un giro tra le bancarelle del mercato per rendersi conto che questa consapevolezza non appartiene a tutti. Basta guardare le vetrine dei negozi, alcune curate in modo perfetto in cui il prodotto balza letteralmente fuori, altre disastrate che se non ci fossero sarebbe meglio.
Basta navigare tra i siti internet delle aziende per vederne di cotte e di crude. Tra i tantissimi siti ben fatti, aggiornati, dalle splendide immagini e dai contenuti allettanti, si incontrano reperti archeologici e grafiche traballanti, testi scritti come pensierini delle elementari ma con paroloni altisonanti, immagini come santini sbiaditi.
I prodotti poi sono vestiti in tutti i modi. Ci sono oggetti che vengono proposti in confezioni meravigliose e altri, della stessa categoria, che vengono buttati sul banco nudi e crudi, semiagonizzanti. 
Sappiamo tutti quanto sia importante un packaging appropriato, accattivante, che qualche volta addirittura ci sorprenda per l’invenzione, la grafica, i materiali inusuali, scatole, carte, shopper, etichette, foglietti delle garanzie con le istruzioni, nastri, velluti e rasi, cartoni speciali e plastiche stampate, estruse o soffiate.
Un bel packaging fa metà della vendita, conferma, esalta o distrugge le qualità dell’oggetto che contiene.
Così per l’immagine delle aziende.
Investire in design e comunicazione paga. E’ l’essenza dell’azienda se diamo per scontate le caratteristiche qualitative dei servizi e dei prodotti che si offrono.
Un prodotto funzionale, progettato bene, ricco di contenuti innovativi, dalle innegabili qualità estetiche si vende che è una bellezza! Se poi lo si comunica con cura, con testi e immagini appropriate vestendolo con un packaging che ne enfatizza il fascino ed infine esponendolo in uno spazio corretto e con la giusta luce, il gioco è fatto!
Meglio una cosa utile e bella che una inutile e brutta, diceva un noto personaggio televisivo di qualche anno fa.
Ovvio! Ma mica tanto!

 

QUESTIONE DI STILE

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Progettare un oggetto con una propria personalità è una questione di stile.
Cosa sará mai questo stile?! Lo stile é fatto di segni riconoscibili, di colori, di forme, di un insieme di simboli che appartengono ad un gruppo sociale, ad un territorio ad un certo periodo storico.
Barocco, Gotico, Rococó, Luigi XVI, Impero, Liberty, Biedermeier, Decó, Moderno, Pop, e poi chi piú ne ha piú ne metta, tutta questione di stile!
Non é architettura, non arte, neanche arredamento o design, non sono accessori o moda. Sono tutte queste cose messe insieme che in un certo momento assumono certe forme, una certa decorazione o nessuna decorazione, certi colori e certi materiali, un vento colorato gonfio di un profumo preciso che sparge ovunque certi segni riconoscibili.
Come sarebbe bello, tranquillizzante, semplice avere uno stile a cui attingere per disegnare case, divani, piatti, sedie, scarpe, abiti, gioielli, pettinature.
Ma ce l’abbiamo! La moda, no?!!! Ecco! Tutto quello che abbiamo é un venticello che ad ogni stagione cambia direzione, colore, forma.
Valori: zero!
Forme persistenti: zero!
Decorazioni condivise e riconoscibili: zero!
Il nostro stile é quello liquido e coloratissimo in cui tutto e il contrario di tutto vanno sempre benissimo!
Tutti possono inventarsi uno stile.
Renderlo esclusivo, personalissimo e affermarlo facendo spuntare ovunque imitatori. Basta crearsi delle forme, assumere dei colori, sposare un certo sapore, restare fedeli ad un mix preciso di segni che ci siamo scelti.

Ci vuole un progetto! Mai come in questi tempi liquidi vale la pena cercare di averne uno.

Rubare una copia sbagliata di una poltrona barocca e coprirla con una texture colorata presa da un paesaggio di Seurat, o con le geometrie di Mondrian.
Trasformare un orecchino Decò in un oggetto hi-tec o in un monocromo pop.
Fingere un’antica scrittura mesopotamica per decorare il piano di un tavolo.

Contaminazione! Questo è lo stile del nostro tempo.

Ci vuole cultura, coraggio, creatività, per mescolare il sacro con il profano, sensibilità lontane secoli e migliaia di chilometri. E’ una questione di stile nuova, che torna a investire i modi di vivere, uno stile fatto da un’infinità di microcosmi che si incontrano, si scambiano informazioni, si fondono dando vita a nuove filosofie, nuovi cibi, nuove sensibilità, creando oggetti mai visti prima.
Siamo un po’ allo sbando, persi in una fantastica discarica di tesori in disuso, un immenso patchwork in cui è impossibile individuare uno stile con le vecchie caratteristiche che ogni stile ha sempre avuto prima.
In questo oceano ondoso ogni azienda ha la necessità di mostrare un proprio stile, la forza di distinguersi nel grande patchwork, come una pezza un po’ più grande, o più colorata, o fatta di un materiale strano, o lucida, magari dalla superficie ispida, o con una forma diversa da tutte le altre. 
E’ molto più di una questione di stile!

Nell’immagine – Poltrona Proust di Alessandro Mendini: riedizione Geometrica.

W L’ITALIA, fare branding per l’italian style

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Altro che Italian Style!
Tiriamo fuori il tricolore e gridiamo W L’ITALIA ogni quattro anni solo quando arrivano i mondiali di calcio.
Anche le imprese che esportano la nostra produzione più raffinata sventolano la bandiera italiana piuttosto raramente, non mettono il simbolo dell’italianità in evidenza sui loro prodotti, sul packaging, sulla stampa, sui loro siti internet e francamente sembrano fregarsene di affermare il valore della creatività italiana nel mondo.
Nonostante il riconoscimento assoluto dei nostri marchi più prestigiosi, non siamo riusciti a creare un’aura commerciale intorno al  nostro tricolore.
Non un marchio del Made in Italy che già esiste e non ha nulla a che fare con la bandiera ma un uso creativo diffuso e diversificato del bianco, rosso e verde che esprima la gioiosa affermazione della creatività italiana e dell’italian style.
Ok, non è facile con un simbolo così poco grafico, così simile a tanti altri.
L’esempio più eclatante di un uso commerciale diffuso del vessillo nazionale è l’Union Jack, proprio la bandiera dei nostri avversari di domenica notte. La “perfida Albione” ha piantato la sua bandiera in tutto il mondo più con la musica dei Beatles e dei Rolling Stones che con le conquiste coloniali. La bandiera inglese è diventata un simbolo dissacrante di libertà e creatività negli anni sessanta diffondendo ovunque il rock esplosivo di Mick Jagger e la moda trasgressiva di Mary Quant. Anche la “Stars and Stripes” americana è diventata un simbolo grafico, un vero e proprio brand commerciale sull’onda dell’egemonia culturale dilagata in occidente dopo la seconda guerra mondiale.
Ora, con lo spostamento repentino del baricentro commerciale mondiale verso oriente, c’è una inaspettata richiesta di storia, di cultura, di un innato senso estetico, di un italian style di cui siamo immeritatamente portatori. I nostri brand storici come Ferrari, Armani… insieme alle giovani aziende emergenti dovrebbero usare più spesso il tricolore per identificare la creatività diffusa che ci contraddistingue.
Tricolore come impronta di cultura, storia e bellezza necessarie al mondo non come icona nazional–popolare autoreferenziale. Giochiamo con i nostri simboli, lasciamoceli rubare, facciamo sì che un’onda lunga di creatività tricolore affermi l’Italian Style inondando il mondo a partire ancora una volta da là dove sorge il sole e ci amano di più!

PS – Con l’Inghilterra vinciamo noi 2 a 0.

Uno Stand fantastico a VicenzaOro

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Stand fantastico della Buendia Jewels nell’angolo a destra appena dentro VicenzaOro.
Alto, altissimo, trasparente, luminoso con personalissime grafiche psichedeliche.
Un’impalpabile evanescente cascata di tulle bianco punteggiata dai led.
Il logo volava alto. Lettere di sottili neon rossi.
Il sistema espositivo digitale e quattro stampanti 3d trasformavano le immagini in gioielli dorati da regalare al pubblico accalcato.
La vecchia receptionist dai paramenti turchesi seduta al centro sotto il faro pulsante riceveva uno ad uno gli uomini e le donne in fila.
Una figura corpulenta, coperta da un velo rosso, con un cenno della mano, ruotando solo leggermente il polso, ammetteva il primo al cospetto della vecchia e subito dopo con un gesto più deciso fermava quello che seguiva.
La signora in abiti di scena turchesi parlottava due minuti con ogni astante, sembrava fissare appuntamenti, scriveva un appunto, compilava una cedola che staccava e consegnava ai suoi interlocutori trattenendone la ricevuta. La dea bendata distribuiva i numeri della lotteria.
Impossibile non accorgersi della fila lunga fino ai tornelli d’ingresso che rallentava tutto il giorno l’accesso alla fiera.
Ho scattato cinquanta, cento foto col mio vecchio iphone imballato ma una volta arrivato a casa c’erano macchie e basta.
Sensori di disturbo? Troppi spritz?!
Che stand fantastico però!

Morale:
Uno stand fantastico può diventare realtà.
Dovrebbe essere la realtà di tutte le nostre presenze in qualsiasi fiera
Sia che creiamo gioielli, scarpe, arredi, abiti o qualsiasi altra cosa.
Perchè la personalità delle tua azienda non ha la forma di una scatoletta!

ESAGERARE FUNZIONA!

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L’idea di esagerare funziona!
Dal punto di vista estetico intendo.
Magari porta a qualche buon risultato anche in altri campi ma non è sempre detto, spesso immagino faccia danni.
Se faccio l’elogio smodato del “troppo” è perché ho avuto modo tante volte di raggiungere risultati insperati esagerando.
Esagerare funziona così bene che come azione creativa dovrebbe essere codificata e insegnata a scuola.

Se progetto una collezione di gioielli farò attenzione a mille cose, identità, indossabilità, peso, target e tante ancora, ma per una sfilata, come quella della foto, mirerò solo ad apparire!
Dovrebbe diventare una regoletta facile, facile a disposizione di chiunque volesse provare a creare qualcosa di originale.
Proviamo a inventarcela!
Ripetilo all’infinito!
Ecco un’altra regola che funziona sempre, ripetere, ripetere, ripetere, esagerando ovviamente!
Se in una vetrina qualunque mettessimo tre oggeti uguali avremo solo perso l’occasione di mostrarne tre di diversi. Ma se, nella stessa vetrina, ne mettessimo 36 in fila, tutti uguali, o magari introducendo un’eccezione, una distonia, ecco allora creata una scena, un evento, un’attrazione. Se apriamo tre finestre uguali su di una grande parete in genere non succede niente, ma se ne disegniamo cento, tutte uguali,  le nostre chance creative aumentano a dismisura.
Altra regoletta. Creiamo ambienti alti, altissimi o bassi bassissimi!
Immaginiamo di progettare uno spazio commerciale avendo a disposizione un numero preciso di metricubi e la possibilità di scegliere se impilarli in un ambiente stretto e altissimo o spargerli in uno molto largo e bassissimo. Tutte e due le opzioni mi attirano e sono certo attireranno anche il pubblico che sarà attratto da quegli spazi esagerati. Eviteremo come la peste la minestrina riscaldata della stanzetta dall’altezza giusta, giusta e larga quanto basta.
Se invece ci toccasse impaginare un depliant, inventare il packaging di un prodotto o disegnare una seggiola, allora credo sarebbe meglio esagerare ancora!
Perché esagerare funziona!

Con qualche accortezza naturalmente, sapendo che esistono gli standard e che quando li si ignora bisogna pagar pegno, tenendo conto dei mille obblighi a cui siamo sempre soggetti.
Alla fine, tenuto conto di tutto, esageriamo!
Perché, datemi retta, esagerare funziona!

Dieci idee per progettare uno stand interessante

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Non sono i dieci comandamenti, solo dieci pensierini elementari, idee che magari potrebbero essere utili per progettare uno stand, un negozio, uno spazio commerciale qualsiasi o qualsiasi altra cosa.
1 – Se avete giá da subito chiara in testa l’idea di come sará lo stand sappiate che forse é un’idea sbagliata. É molto raro che le idee buone vengano subito.
2 – Se nessuno ha mai fatto uno stand anche solo lontanamente simile a quello che volete fare è probabile che ci sia qualche buon motivo. Altrimenti avete avuto un colpo di genio. Capita!
3 – Senza un’idea forte non c’è il progetto di uno stand che valga la pena costruire.
4 – Bisogna esagerare arrivando al limite dell’usabilitá. “Troppo” è una parola magica. Troppo lungo, troppo alto, troppo basso, troppo buio, troppo chiaro, troppo aperto, troppo chiuso, troppo stretto, troppo complicato, troppo semplice, e così via. Una buona idea per il progetto di uno stand ha sempre qualcosa di “Troppo”. Meglio uno stand sbagliato che uno stand brutto!
5 – É importante fare la lista delle cose che lo stand dovrá contenere, individuare il numero, la tipologia e le dimensioni approssimative delle aree funzionali. Magari poi si potrá rinunciare a qualcosa a vantaggio di qualcos’altro ma meglio esserne consapevoli.
6 – Uno stand deve comunicare con un’immagine semplice e precisa l’identitá del marchio.
7 – Copiare uno stand bellissimo è molto meglio che farne uno brutto tutto da sè. Però, come a scuola, è indispensabile che nessuno se ne accorga! Copiare un’idea sta alla base di qualsiasi buon progetto… poi bisogna farla propria, trasformarla, reinventarla…
8 – Niente è più brutto, sbagliato e inutile di uno stand banale.
9 – Come si diceva nel progettare uno stand é assolutamente indispensabile esagerare qui e lá ma tenendo sempre ben presente che saranno esseri umani con misure piuttosto precise a muoversi dentro e fuori. Un po’ di ergonomia non fa male!
10 – La solita ultima regola, infischiarsene delle regole! Perchè se bastassero le regole ci sarebbero solo stand bellissimi e invece…
Se volete darmi una mano ad allungare questa lista di suggerimenti scrivetemi!
Aspetto le vostre idee!

 

 

 

Comunicare il lusso

 

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Appunti su come comunicare il lusso mentre le grandi Maison della moda affollano gli spazi della comunicazione di massa come le griffe dei grandi magazzini.

Volevo scrivere sui tempi del lusso, lo paragonavo al tempo lento di una giornata di pioggia passata a leggere un buon libro davanti al caminetto acceso.
Invece poi ne è uscita una cosa troppo lunga e complicata.
Ci tornerò.
Nel frattempo condivido questi appunti e qualche breve riflessione su come comunicare il lusso.

1 –  Vendiamo a qualcuno prima di vendere qualcosa.
Per comunicare il lusso è importante capire chi è il nostro pubblico.

2 –  Non esiste un solo lusso.
Ogni lusso merita una strategia  di comunicazione.

3 –  Comunichiamo, non facciamo pubblicità
Raccontiamo il brand al nostro pubblico. Come produciamo, chi siamo, che valori abbiamo.

4 – Il negozio è il centro della comunicazione del brand.
La vetrina, le luci, i materiali, il profumo, la musica o il silenzio, il personale di vendita rappresentano il marchio.

5 – Internet è uno spazio adatto al lusso?
E’ possibile comunicare il lusso con strumenti che si rivolgono alla massa?
Per internet come per la TV vale la regola che ogni lusso ha un suo linguaggio.

6 – Chi ha detto che non si può comunicare il lusso sui social network?
Il lusso è per pochi ma per ritenersi tale deve essere desiderato da tanti.
Sappiamo che il lusso si può comunicare sui social visto che tante grandi marche lo fanno bene.

7 – Il lusso come la bellezza è fatto di estremismi.
Comunicare le minestrine riscaldate non entusiasma nessuno!

8 – Il lusso va oltre il prodotto.
E’ importante comunicare servizi e privilegi.

9 – Ogni popolo, ogni nazione possiede un proprio lusso.
Ogni popolo, ogni nazione usa parole e immagini diverse per comunicare il lusso.

10 – Scrivere del lusso significa raccontare il prodotto e il brand.
Un uso smodato di aggettivi superlativi sconfina nel ridicolo.

Per comunicare il lusso useremo un linguaggio semplice e concreto capace di emozionare per la ricchezza dei contenuti non per le urla stridule delle vestali del kitsch in TV.

 

Stagione di Fiere

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Questa è stagione di Fiere ed Eventi importanti. Una dopo l’altra si snocciola il meglio della produzione Italiana, gioielleria, abbigliamento, oggettistica, calzature, pelletteria, design, arredamento, vini e cibi di qualità, solo per citare alcuni dei settori più importanti che in questi primi mesi dell’anno espongono la loro produzione.
In sessanta giorni ho visitato cinque eventi espositivi immergendomi in un caleidoscopio allucinante di immagini. Mi sono sfilati davanti migliaia di stand, dal più piccolo tre per tre dell’azienda artigianale alle strutture delle multinazionali grandi come mezzo campo da calcio.
In comune spesso l’invisibilità!
Com’è possibile essere invisibili occupando mezzo padiglione? Direte voi.
Semplice! Facciamo tutti la stessa cosa!

Ovviamente non proprio uguale, uguale. Qualche differenza anche sostanziale c’è, andando ad osservare bene qualche stand è più alto, qualche altro è più aperto, qualcuno è pieno zeppo di colori e di cose, qualche altro sembra una stanza vuota ed infine ci sono poi stand davvero innovativi e interessanti, pochi ma ci sono.
Allora non è vero che gli stand sono tutti uguali! Direte voi.
Invece sì! Facciamo tutti grande attenzione ad esporre bene i nostri prodotti, ad accogliere nel modo migliore i clienti, ad organizzare i nostri spazi per lavorare con efficienza. Ci facciamo tutti le stesse domande e più o meno ci diamo le stesse risposte, finendo per assomigliarci come gocce d’acqua.
In pochi diamo importanza ad esporre la personalità del nostro marchio. Ci chiediamo troppo poco: chi sono? Quali sono i miei punti di forza, i valori importanti che mi caratterizzano. Come posso differenziarmi dai miei concorrenti? Riflettiamo troppo raramente intorno all’identità della nostra azienda.
Se in più imprese ci facessimo queste domande avremmo immagini più vivide della nostra presenza in fiera. Ci sarebbero stand davvero interessanti e racconteremmo storie diverse. Ciascuno di noi sarebbe presente sulla scena del mercato con una propria forte individualità.
Tutto ciò è fondamentale se vogliamo affermare il nostro marchio, per essere riconoscibili in ogni occasione, nelle fiere ancora di più!

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