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IL WEB CHE CI SERVE

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Stamattina ho la fissa del web, di quello che serve alle aziende per comunicare in internet.
Una fissazione che cresce da un sacco di tempo, da quando ho visto fiorire dappertutto pubblicazioni specialistiche contrassegnate da una cifra: 3.0 – TRE PUNTO ZERO
Cos’è il Web 3.0? Esattamente non lo so, non so neanche con certezza se esista!
Ero lì che mi trastullavo con l’illusione di essere un sacco avanti, io che in qualche modo so qualcosa di web 2.0, quello dei social per intenderci, delle condivisioni, della viralità, degli hashtag, di Facebook e Youtube, dei blog, di google e compagnia bella…
Ecco che quelli bravi, quelli che sanno tutto di tutto… track!!! Mi sbattono sotto il naso questa storia del web 3.0, una cosa che loro ne parlano già dal 2006… roba di big data, di web semantico… e finiamola lì che ho già mal di testa.
Se vi siete incuriositi fatevi una bella gugglata e andate ad annusare cos’è  ‘sto web 3.0.
Ritorno alla mia fissazione… nemmeno si sa se esista o non esista (il web 3.0) e si scrivono libri, si fanno conferenze e io che giro le aziende piccolissime, piccole e medie, le famose PMI, (che sono piccole sì ma non sono le PM10, le polveri sottili), trovo un sacco di siti di imprese con splendide welcome, con le news aggiornate all’ultima fiera del 2009 (sic!),  siti realizzati in Flash, che frega niente cosa sia, purchè sia chiaro a tutti che sull’ipad non si vede, per dire.
Allora 3.0 o 2.0 dovrebbe importarci poco. Dovremmo preoccuparci invece del divario enorme che si sta creando tra tecnologia, strumenti, capacità di operare e diffusione delle conoscenze di base.
Esistono ancora tantissime aziende, spesso non piccolissime che stanno decidendo in questi giorni di sbarcare in Internet per la prima volta. Tra queste ed anche tra quelle che ci stanno da un pezzo, non sono poche quelle che hanno una visione contorta e annebbiata delle differenze che passano tra sito istituzionale, blog, pagina Facebook, e di cosa caspita serva avere una presenza sui principali Social della rete.
Conoscenze semplici, terra terra, per avere chiaro quello che serve a cosa.

Proverò a dire poche cose semplici, magari banalizzando, non mi importa, credo che quello che conta sia ristabilire una nuova base di partenza, un livello di conoscenze diffuso più vicino alla realtà.

La cosa più importante oggi è che il sito istituzionale, il blog o l’applicazione funzioni decentemente su tutti i nostri dispositivi, sul computer di casa, sul portatile, sul tablet che abbiamo in borsa e sullo smartphone che usiamo ormai per tutto. In una parola è importante che la nostra presenza sul web sia “responsive” ovvero risponda sempre, con qualsiasi strumento vi si acceda.
Questa cosa di dover essere responsive a tutti i costi è un po’ una fregatura, i siti hanno finito per assomigliarsi tutti visto che i layout gira che ti rigira sono sempre quelli. Questo aprirebbe un discorso importante sui contenuti, i testi e le immagini, ma ne ho già parlato e ne parlerò ancora.

Una presenza articolata sul web oggi dovrebbe prevedere almeno un sito istituzionale e  un blog o almeno uno dei due e l’interazione sui social più utili alla tipologia dell’attività.

Il sito istituzionale oggi è l’HUB, l’aeroporto dove tutti arrivano e partono.
Mostra le insegne, il logo, le persone, dice dov’è e com’è la nostra attività.
Il Blog qualche volta può sostituire il sito istituzionale, ma ha una funzione diversa, è il giornale di bordo, serve a condividere la vita quotidiana dell’azienda, i progetti ancor prima che si concretizzino, le idee, i valori.
La rete dei Social connette la gente alla vita dell’azienda e l’azienda alla vita del suo mondo.
Esistono social per tutti i gusti e tutte le necessità, per condividere le proprie immagini con brevi commenti (Instagram), per condividere tutte le immagini che ci piacciono, le nostre e tutte quelle che troviamo sul web (Pinterest), per esprimere brevi pensieri accompagnandoli magari da un’immagine, una sorta di microblog in soli 140 caratteri (Twitter), per pubblicare i nostri video a scopo ricreativo, divulgativo o didattico (Youtube), per presentarci e interagire col mondo professionale e delle imprese (LinkedIn), ed infine  Facebook e Google+ dove la vita scorre di condivisione in condivisione con tutte le sue sfaccettature. Una rete fatta anche da un’infinità di altre modalità di interazione, Foursquare  basato sulla geolocalizzazione e quindi adatto al turismo per esempio, e poi ancora, e ancora…
Se siete lì che state pensando a cosa potrebbe mai servirvi questo o quell’altro, quale vi si addice di più… ecc… direi che siamo sulla buona strada.
Questo lungo post forse ha fatto un po’ di chiarezza, ma soprattutto spero abbia fatto nascere tante altre domande…
E l’Hosting? E cos’è WordPress? E quanto dovrebbe costare un sito web? E come dovrei usare i social per promuovere la mia attività? E l’e–commerce? E la landing page? E l’inbound marketing? E l’email marketing? E come dovrebbero essere i testi? E le foto? E…? E…? E…?

Serve ancora qualche risposta?

 

IL COLORE DELLE PAROLE

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Il tono della nostra voce ci distingue, meglio scegliere con cura il colore delle parole.
Stamattina un’amica che scrive su un blog frequentatissimo mi parlava di stile, di registro, di mood. Mi diceva, sì va bene quel pizzico di umorismo e di ironia ma badando a non esagerare, a non usare mai toni caustici o sarcastici.
Aveva ragione, il suo stile lo esige, le persone cercano nel suo blog l’aria leggera e piena di sole di un sabato mattina a metà Aprile con le ombre e il sole che giocano tra i palazzi storici del corso mentre aprono le botteghe alla moda e il fioraio all’angolo fa a gara con la pasticceria di fronte a prenderci per il naso.
Lei usa parole azzurre, lilla, pervinca che si alternano a quelle che sanno di pane appena sfornato, zuppe, caffè, vaniglia e il ritmo è da brezza primaverile, un‘aria già tiepida ma frizzante.
Perfetto! E poi novità, novità, novità…e autoironia e leggerezza…
Una scrittura mai stucchevole sempre in perfetto equilibrio tra dolce e salato.
Poi invece, cambiato blog, c’è chi tira merda e prende a scudisciate in faccia con post al vetriolo e tweet che magari ci fanno pure ridere ma sono come quando sbatti lo stinco e ti giri, sorridi… no! Fatto niente… mapporcasozzadiunaputt…
Ma ce lo siamo cercato noi eh! Perché lui scrive così, di quelle cose lì perché sa che ci piacciono.
Sa che corriamo a leggere l’ultima stronzata (scritta da dio), quelle tre righe che ti spiegano il sesso o la morte o solo il niente di un martedì mattina…
Volgarità esibita con destrezza, sarcasmo, nichilismo, tagli netti come rasoi… un altro mood, nient’altro che parole e stile diversi, altri ritmi e altri colori.
Parole nere o bianche, rosse, color terra, viola scuro. Parole sparate a raffica e sospese nel nulla di quei tre puntini… che ti lasciano immaginare quello che vuoi.
Parole che pensavo servissero solo a stupire e che invece intrigano adolescenti e li portano dritti dritti a un e–commerce di t–shirt e felpe e jeans skinny e microgonne in lurex e accessory decisamente dark.
Pubblico generalista? Piccole e grandi nicchie? Tutto ha una sua voce, un colore che se ne sia consapevoli o meno.
Chi legge il blog intrigante e leggero per sapere dove trovare il regalino giusto, per stupire ed essere sempre aggiornato all’ultima tendenza non è detto disdegni poi gli antri bui dove bollono i calderoni mefitici e dove lo stregone di turno si trastulla rovesciandoci lo stomaco come un calzino.
Siamo fatti di tante cose e ne cerchiamo sempre di nuove.
Però se vogliamo attrarre le persone interessate a noi, ai nostri prodotti e ai nostri servizi è meglio se proviamo ad essere riconoscibili, a vestire anche il nostro linguaggio sul web con i nostri colori scegliendo le parole giuste.
Al di là degli estremi ci sono un’infinità di gradazioni possibili, di toni giusti, ma soprattutto di parole e stili che ci appartengono e in cui ci riconosciamo.
Possiamo essere allegri allegri e scrivere da far ridere a crepapelle oppure far sorridere soltanto, usare parole che emozionino fino alle lacrime o pervadano di una sottile malinconia. Possiamo essere dei tecnici competenti ed usare un tono dottorale o essere ugualmente preparati e comunicare tutto il nostro sapere con leggerezza e autoironia. Possiamo decantare la bellezza e la preziosità delle nostre collezioni con processioni di superlativi e parolone che sanno solo su Wikipedia o inventarne di preziose, semplici e limpide come diamanti. Possiamo descrivere le qualità tecniche della nostra produzione usando il linguaggio degli addetti ai lavori o colorando con i toni del nostro stile anche la descrizione della lavorazione più hi–tec.

La nostra identità e quella della nostra azienda è fatta anche dalle parole che scegliamo, dal tono, dal ritmo della nostra voce che diventa  scrittura e immagini sul nostro sito internet, sul blog, sui social, sulle news che ci rappresentano e mostrano al mondo la nostra faccia.
Cerchiamo che sia riconoscibile…  che sia davvero la nostra faccia.

Eclettico, versatile, curioso… elettrico!

 

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Quando penso alla parola eclettico mi saltano subito alla mente due nomi: Sister Act e Leonardo Da Vinci. Forse è difficile individuare due personaggi più distanti l’uno dall’altro quanto la vulcanica finta suora interpretata da Whoopi Goldberg ed il genio rinascimentale dell’autore della Gioconda, ma è proprio l’aggettivo eclettico ad unirli in una (insolita) libera associazione. In una scena di Sister Act 2 infatti Sister Act, alla prese con una classe di adolescenti ribelli definisce così uno dei ragazzi, che però non conosce la parola. Un altro cerca di spiegargliela con sufficienza, ma viene subito deriso dal gruppo, perchè ne ha confuso il significato con quello di “elettrico”. E mi ha sempre fatto sorridere questo piccolo brano, perché l’eclettismo in effetti è davvero elettrico; è qualcosa che ti dà la scossa, che trasmette un sacco di energia.

A proposito di energia, nonostante i secoli che ci separano, pochi personaggi storici riescono a trasmettermi la stessa infaticabile energia creativa e quasi demiurgica del genio versatile ed eclettico di Leonardo Da Vinci: pittore, scultore, ingegnere, esoterista e molto altro.

Mai come oggi è stato necessario essere versatili ed elastici, apprendere costantemente nuove tecniche e tecnologie (software di disegno, strumenti hardware e software eccetera). Servono nuovi linguaggi di comunicazione sul web, nuove forme espressive in grado di catturare l’attenzione del nostro pubblico distinguendosi nel rumore bianco del costante iperflusso di informazioni che ci bombarda incessantemente.

A chi si occupa di comunicazione non è più concessa la specializzazione professionale: a tutti è richiesto di sapere un po’ di tutto, bene o così così non ha davvero troppa importanza, basta che costi il giusto e sia… subito!

L’eclettismo è una cosa meravigliosa: per un direttore creativo è fondamentale, perchè ci consente di tenere sotto controllo tutti gli aspetti della comunicazione, nessuno escluso, e di valutare se e quando avvalersi di un professionista specializzato, e quali indicazioni fornirgli per guidarne il lavoro.

Penso alla direzione artistica di un servizio fotografico, solo per fare un esempio. Avere nozioni di fotografia, di illuminazione, di composizione dell’immagine mi permette di guidare meglio il fotografo nella realizzazione del tipo di immagine che ho in mente. Sapere quale testo accompagnerà l’immagine, in quale layout grafico verrà inserita, che sia un catalogo o un poster nello stand fieristico mi aiuta a scegliere il cosiddetto mood, l’atmosfera degli scatti.

Eclettismo non significa tuttologia, ma versatilità. Io sono innamorato del cinema, mi interessano la fotografia, la scrittura, la moda, la letteratura, l’architettura “classica” (gli architetti di una volta progettavano case, no?) il design industriale, la gioielleria, il social media marketing, il packaging design, la pop art ed il barocco, le brocche ed i ritratti, l’action painting e un sacco di altre cose e correnti ed idee che forse ancora non ho scoperto.

Non significa affatto che io sappia fare tutto, o che lo sappia fare in modo sempre e comunque eccellente, ma possedere una mente eclettica, curiosa e sempre assetata di nuovi stimoli è una risorsa fondamentale per il mio lavoro di designer, ma anche quando nel (pochissimo) tempo libero mi dedico a ciò che mi appassiona di più, ovvero l’arte.

E in questo periodo, oltre a tutto il lavoro di consulenza e progettazione per i miei clienti, l’arte sta riprendendo il posto che le spetta nella mia vita, contaminando tutto il resto in modi che spesso sorprendono (positivamente) me e soprattutto i miei committenti.

Nuovi progetti stanno nascendo, e crescono rapidamente.
Sono eclettico, e sono elettrico. È una bella sensazione.

Di cosa parliamo quando parliamo di storytelling

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Chi si laureava in lettere fino a dieci anni fa spesso sognava di trasformare il romanzo che teneva nel cassetto in un classico della letteratura, e intanto pagava le bollette facendo il copywriter per qualche agenzia di pubblicità. Chi si laurea oggi lavora già da anni come content writer, storyteller, web content editor.
Tutto il resto del mondo annuisce con convinzione chiedendosi mentalmente che cosa voglia poi dire.

Il “caro, vecchio” copywriting, quello di Mad Men, quello di What Women Want e di tutte le rom-com sulle agenzie pubblicitarie, consiste nel compito a volte esaltante e molto più spesso ingrato di scrivere i testi di accompagnamento delle campagne pubblicitarie. Questo comprende l’Headline, cioè il titolo principale, il body-copy, che è il breve testo esplicativo lungo poche righe che eventualmente lo accompagna, ed il payoff, cioè la frase che conclude e firma la campagna. Se questa prevede più soggetti, il payoff rimane lo stesso, e scolpisce l’identità del brand. Celeberrimo è l’esempio del Just do it che non ha neppure bisogno del segno grafico per farci immediatamente pensare “Nike.”

Così come l’ADV tradizionale, la “pubblicità”, insomma, il copywriting continua a rivestire un ruolo fondamentale nella comunicazione, e nella maggior parte dei casi è determinante per il successo di una campagna. Allo stesso modo della pubblicità “tradizionale”, però, nell’epoca del cosiddetto Web 2.0 non basta più. Serve un approccio diverso, che integri e sviluppi il percorso delineato dal copywriting tradizionale trasformandolo in un’azione molto più ampia e strutturata.

La brand identity oggi si costruisce attraverso lo storytelling, letteralmente “raccontare storie”: la comunicazione unidirezionale della pagina pubblicitaria è stata sostituita dalla costruzione di racconti, di storie, attraverso testi ma anche e soprattutto video ed immagini in grado di costruire conversazioni con il pubblico.

Lo scopo di chi usa lo storytelling e di chi costruisce narrative, cioè sistemi di senso – che diventano racconti su di sé, sui propri marchi o i propri prodotti – è instaurare una relazione profonda con il proprio pubblico: non lo si vuole solo informare, lo si vuole coinvolgere attivamente. In questo tipo di attività gioca un ruolo fondamentale la cosiddetta “scrittura creativa”, o creative writing, di cui parleremo presto.

PS: il titolo di questo post è un libero adattamento da quello di “Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore”, un libro di Raymond Carver, uno dei maggiori maestri di scrittura creativa, autore della fondamentale raccolta di saggi “Il mestiere di scrivere.”

10 piccoli regali

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Manca un mese a Natale e vi propongo 10 piccoli regali.
Cose che costano davvero poco, nessuna supera i 50 euro e per lo più costano molto meno.
Piccoli regali, magari gadget aziendali, pensierini allegri e curiosi.
Questi piccoli oggetti d’uso comune però hanno tutti una peculiarità, mostrano in modo evidente la scintilla da cui sono nati, l’idea che ne ha fatto degli oggetti interessanti, diversi, facili da comunicare e da proporre. Dieci oggetti che dimostrano come sia importante il progetto del prodotto.
1 – ONION GOGGLES –  € 22,95
Gli occhiali per le cipolle.
Può sembrare una scemenza solo a chi non ha mai fatto il soffritto.
ideeregaloblog.it

2 – LUCETTA  € 25,00 
Meglio non pedalare a fari spenti nella notte!
Una luce bianca e una rossa, led calamitati da attaccare alla bicicletta.
Parcheggiata la due ruote si staccano, si riattaccano tra loro a formare un piccolo cilindro liscio e si mettono in tasca.
palomarweb.com

3 – SUN JAR  € 25
Una lampada racchiusa in un vaso da conserve.
SUN JAR durante il giorno cattura l’energia solare e al calar della notte, come la luna, il barattolo sprigiona una luce soft rilassante, gialla, blu o rosa.
Bellissimi da abbandonare nel prato davanti casa o sul davanzale.
www.suck.uk.com

4 – CONCEAL  € 13
La mensola invisibile, un trucco semplice per illudere che i libri se ne stiano sospesi nel nulla.
designxtutti.com

5 – ARROW  49 €
Appendiabito a forma di freccia con tre ganci per appendere il cappotto, la sciarpa ma anche la bicicletta.
Chiuso diventa un segno grafico che se moltiplicato può decorare e riempire di significati la parete anonima del corridoio.
madeindesign.it

6 – PORTA MONETE  10 €
Triangolare, lucidissimo e colorato.
wearunique.com

7 – WIRE PLUS  –  6 €
Un segno colorato per tenere in ordine le cuffiette senza che i fili si aggroviglino.
nottheusual.co.uk

8 – VERSODIVERSO di Viceversa  € 9,50
Un becco da avvitare alle bottiglie di plastica per trasformarle in innaffiatoio.
kikaustore.it

9 – APOSTROPHE  € 19.00
Lo sbuccia arance per realizzare decorazioni. Indispensabile per il food design.
Bellissimo in sé e per sé! Lo userei come fermacarte.
store.alessi.com

10 – DUE PAROLE  € 00.00
Due o mille, non costano nulla, ma trasformano tutti questi piccoli regali in qualcosa di importante!

Per gli auguri ci sentiamo tra un mese!

 

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Si vende che è una bellezza

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Un prodotto curato, ben vestito si vende che è una bellezza!
Tutti abbiamo qualcosa da vendere tutti i giorni. Se siamo aziende produttrici le nostre merci ai negozi, se siamo negozianti una certa gamma di prodotti, se siamo artigiani la nostra manualità e la nostra esperienza, servizi se offriamo servizi, se siamo professionisti le nostre competenze.
Tutti vendiamo noi stessi.

E la mattina prima di uscire di casa tutti ci diamo un’occhiata allo specchio per garantirci che la nostra immagine corrisponda a quello che vorremmo comunicare di noi, da Miss Mondo al Gobbo di Notre Dame funziona più o meno così per tutti.
A parità di prezzo e con le stesse qualità intrinseche, gli oggetti, i servizi, e le professionalità che si offrono in modo più curato o mostrando un’immagine più appropriata vendono molto di più.
Direte che è ovvio.
Mica vero!
Basta fare un giro tra le bancarelle del mercato per rendersi conto che questa consapevolezza non appartiene a tutti. Basta guardare le vetrine dei negozi, alcune curate in modo perfetto in cui il prodotto balza letteralmente fuori, altre disastrate che se non ci fossero sarebbe meglio.
Basta navigare tra i siti internet delle aziende per vederne di cotte e di crude. Tra i tantissimi siti ben fatti, aggiornati, dalle splendide immagini e dai contenuti allettanti, si incontrano reperti archeologici e grafiche traballanti, testi scritti come pensierini delle elementari ma con paroloni altisonanti, immagini come santini sbiaditi.
I prodotti poi sono vestiti in tutti i modi. Ci sono oggetti che vengono proposti in confezioni meravigliose e altri, della stessa categoria, che vengono buttati sul banco nudi e crudi, semiagonizzanti. 
Sappiamo tutti quanto sia importante un packaging appropriato, accattivante, che qualche volta addirittura ci sorprenda per l’invenzione, la grafica, i materiali inusuali, scatole, carte, shopper, etichette, foglietti delle garanzie con le istruzioni, nastri, velluti e rasi, cartoni speciali e plastiche stampate, estruse o soffiate.
Un bel packaging fa metà della vendita, conferma, esalta o distrugge le qualità dell’oggetto che contiene.
Così per l’immagine delle aziende.
Investire in design e comunicazione paga. E’ l’essenza dell’azienda se diamo per scontate le caratteristiche qualitative dei servizi e dei prodotti che si offrono.
Un prodotto funzionale, progettato bene, ricco di contenuti innovativi, dalle innegabili qualità estetiche si vende che è una bellezza! Se poi lo si comunica con cura, con testi e immagini appropriate vestendolo con un packaging che ne enfatizza il fascino ed infine esponendolo in uno spazio corretto e con la giusta luce, il gioco è fatto!
Meglio una cosa utile e bella che una inutile e brutta, diceva un noto personaggio televisivo di qualche anno fa.
Ovvio! Ma mica tanto!

 

W L’ITALIA, fare branding per l’italian style

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Altro che Italian Style!
Tiriamo fuori il tricolore e gridiamo W L’ITALIA ogni quattro anni solo quando arrivano i mondiali di calcio.
Anche le imprese che esportano la nostra produzione più raffinata sventolano la bandiera italiana piuttosto raramente, non mettono il simbolo dell’italianità in evidenza sui loro prodotti, sul packaging, sulla stampa, sui loro siti internet e francamente sembrano fregarsene di affermare il valore della creatività italiana nel mondo.
Nonostante il riconoscimento assoluto dei nostri marchi più prestigiosi, non siamo riusciti a creare un’aura commerciale intorno al  nostro tricolore.
Non un marchio del Made in Italy che già esiste e non ha nulla a che fare con la bandiera ma un uso creativo diffuso e diversificato del bianco, rosso e verde che esprima la gioiosa affermazione della creatività italiana e dell’italian style.
Ok, non è facile con un simbolo così poco grafico, così simile a tanti altri.
L’esempio più eclatante di un uso commerciale diffuso del vessillo nazionale è l’Union Jack, proprio la bandiera dei nostri avversari di domenica notte. La “perfida Albione” ha piantato la sua bandiera in tutto il mondo più con la musica dei Beatles e dei Rolling Stones che con le conquiste coloniali. La bandiera inglese è diventata un simbolo dissacrante di libertà e creatività negli anni sessanta diffondendo ovunque il rock esplosivo di Mick Jagger e la moda trasgressiva di Mary Quant. Anche la “Stars and Stripes” americana è diventata un simbolo grafico, un vero e proprio brand commerciale sull’onda dell’egemonia culturale dilagata in occidente dopo la seconda guerra mondiale.
Ora, con lo spostamento repentino del baricentro commerciale mondiale verso oriente, c’è una inaspettata richiesta di storia, di cultura, di un innato senso estetico, di un italian style di cui siamo immeritatamente portatori. I nostri brand storici come Ferrari, Armani… insieme alle giovani aziende emergenti dovrebbero usare più spesso il tricolore per identificare la creatività diffusa che ci contraddistingue.
Tricolore come impronta di cultura, storia e bellezza necessarie al mondo non come icona nazional–popolare autoreferenziale. Giochiamo con i nostri simboli, lasciamoceli rubare, facciamo sì che un’onda lunga di creatività tricolore affermi l’Italian Style inondando il mondo a partire ancora una volta da là dove sorge il sole e ci amano di più!

PS – Con l’Inghilterra vinciamo noi 2 a 0.

RISPONDERE ALLE E-MAIL

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Riceviamo molte e-mail ogni giorno, un po’ di tutto, cose più o meno importanti, lavoro, clienti, colleghi, fornitori e poi comunicazioni pubblicitarie, e infine immagini, pensieri inaspettati, proposte. Non è sempre necessario rispondere alle e-mail, tra tutte solo una parte richiede davvero una risposta. Facciamo però attenzione. Con la selezione che facciamo scorrendo la posta, in modo sempre più frettoloso, sul tablet o addirittura sullo smartphone rischiamo di perderci qualche contatto prezioso, e-mail interessanti, opportunità di lavoro o di crescita personale. Ma soprattutto accade sempre più spesso che ci si dimentichi di rispondere a quei messaggi che magari nell’immediato sono irrilevanti ma che potrebbero rivelarsi utilissimi in futuro.
E’ importante rispondere alle e-mail, ne va della reputazione personale e dell’immagine dell’azienda.
Meglio ancora se saremo capaci di creare una relazione empatica con il nostro interlocutore.
Non ci vuole molto.
Proviamo a non usare sempre le stesse frasi fatte, sforziamoci di immaginare la persona che abbiamo davanti e cerchiamo di essere diretti.
Non è sempre possibile uscire dagli schemi ma quando ci riusciamo, quando inneschiamo una conversazione vera ci sentiamo meglio e gratifichiamo chi ci ascolta.
Rispondiamo alle e-mail, anche a quelle che non ci sembrano molto importanti, facciamolo mettendoci in gioco riconoscendo l’individualità della persona che sta dall’altra parte.
Ogni impresa dovrebbe cogliere l’occasione, che si ripete ogni giorno con le e-mail, di comunicare la propria personalità.
L’opportunità è ancora più grande perchè pochissimi la colgono.

Quasi tutti, dalla mega-multinazionale alla bottega sotto casa, rispondono alle e-mail nello stesso modo.
Immaginatevi perciò che botta di vita e come salti agli occhi trovare qualcuno capace di parlare con la propria voce usando un linguaggio semplice e diretto. 
Rispondere alle e-mail con empatia fa crescere la reputazione personale e della propria azienda.

ESAGERARE FUNZIONA!

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L’idea di esagerare funziona!
Dal punto di vista estetico intendo.
Magari porta a qualche buon risultato anche in altri campi ma non è sempre detto, spesso immagino faccia danni.
Se faccio l’elogio smodato del “troppo” è perché ho avuto modo tante volte di raggiungere risultati insperati esagerando.
Esagerare funziona così bene che come azione creativa dovrebbe essere codificata e insegnata a scuola.

Se progetto una collezione di gioielli farò attenzione a mille cose, identità, indossabilità, peso, target e tante ancora, ma per una sfilata, come quella della foto, mirerò solo ad apparire!
Dovrebbe diventare una regoletta facile, facile a disposizione di chiunque volesse provare a creare qualcosa di originale.
Proviamo a inventarcela!
Ripetilo all’infinito!
Ecco un’altra regola che funziona sempre, ripetere, ripetere, ripetere, esagerando ovviamente!
Se in una vetrina qualunque mettessimo tre oggeti uguali avremo solo perso l’occasione di mostrarne tre di diversi. Ma se, nella stessa vetrina, ne mettessimo 36 in fila, tutti uguali, o magari introducendo un’eccezione, una distonia, ecco allora creata una scena, un evento, un’attrazione. Se apriamo tre finestre uguali su di una grande parete in genere non succede niente, ma se ne disegniamo cento, tutte uguali,  le nostre chance creative aumentano a dismisura.
Altra regoletta. Creiamo ambienti alti, altissimi o bassi bassissimi!
Immaginiamo di progettare uno spazio commerciale avendo a disposizione un numero preciso di metricubi e la possibilità di scegliere se impilarli in un ambiente stretto e altissimo o spargerli in uno molto largo e bassissimo. Tutte e due le opzioni mi attirano e sono certo attireranno anche il pubblico che sarà attratto da quegli spazi esagerati. Eviteremo come la peste la minestrina riscaldata della stanzetta dall’altezza giusta, giusta e larga quanto basta.
Se invece ci toccasse impaginare un depliant, inventare il packaging di un prodotto o disegnare una seggiola, allora credo sarebbe meglio esagerare ancora!
Perché esagerare funziona!

Con qualche accortezza naturalmente, sapendo che esistono gli standard e che quando li si ignora bisogna pagar pegno, tenendo conto dei mille obblighi a cui siamo sempre soggetti.
Alla fine, tenuto conto di tutto, esageriamo!
Perché, datemi retta, esagerare funziona!

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