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fanculo le palme

Riesce quasi sempre difficile far coincidere il verde del proprio giardino con i colori su cui corrono i pensieri. Il progetto già pronto da anni ora poteva confrontarsi con il luogo a cui era destinato. Quello sarebbe stato il posto giusto. Ci andò a piedi attraversando il paese. Si mise a sedere in mezzo alla proiezione del suo quadrato e si sdraiò a guardare il cielo. Là in mezzo, disteso sull’erba, si sentiva come una nuvola scesa a dare un’occhiata. Era stata una gran fortuna ritrovarsi in eredità un lotto perfettamente pianeggiante e dalle dimensioni giuste per farci stare le sue quattro mura di sassi neri senza dover modificare il progetto. Gli fosse toccata in sorte una fetta di terra lunga e stretta, tra due masiere, in collina, cosa avrebbe fatto? Le strisciate bianche di aerei invisibili si incrociavano e dissolvevano basse. La casa avrebbe racchiuso quel pezzo di cielo.
Le schifezze sul bordo del paese, lungo il viale non esistevano già più.
Odiava tutti i proprietari di quelle cose, i costruttori, perfino gli operai che le avevano tirate su, li odiava uno per uno. Ogni amministratore, dal sindaco all’ultimo assessore, tutti attenti a non porre limiti a ogni buon elettore, a ogni concittadino proprietario di un cesso. Recinzioni e recinzioni, cuccagne per avvocati di paese, cinquanta centimetri per trenta di muretti in cemento su cui appoggiare un altro metro di ferraglia multiforme. Cancellate, cancellini, passi carrai, ingressi pedonali, movimentazioni radiocomandate, antennine e lampeggianti gialli, tettoie, edicole, citofoni e cassette della posta in alluminio, acciaio inox, rame sbalzato con cognomi infarciti di fiori, frutta e cani da punta, piccole coperture dove fermarsi a chiudere l’ombrello premendo il pulsante del citofono. Posti di ristoro per postini fradici. Pilastri di cemento trenta per trenta per due metri e venti a tener su quattro falde di tegole grigie, grondaie di rame e scarichi da grosse catene tra i sassi. Biancanevi per sette boys fissati su aste d’acciaio due metri sotto terra, salvi dai pittbull che scorrazzavano senza poter rovesciare mammoli e pisoli. Coperture di plexiglass curvato, archi di cemento armato e lame d’acciaio a proteggerci la testa. Rustiche. Travi e travetti in legno d’abete e coppi anticati per l’accesso a giardini di fiorellini davanti a piccole grotte di Lourdes con fontanelle d’acqua clorata. Fiere con mostri d’ogni genere. Fascioni intarsiati di conchiglie, intonaco grezzo, finti rami di gesso e mille altri decori che attingevano ai ricordi delle case delle vacanze fino all’apoteosi dello chalet alpino incorniciato dalle palme. Nessuna ironia, nessun gioco. Se solo ci fosse stato uno straccio di consapevolezza.
Se solo? Se… se… se… fanculo le palme.


da “La casa del cielo”

Case da esseri felici

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L’altra sera pensavo che ho passato quasi metá della mia vita professionale a progettare case e che ne ho ancora voglia.

Mi piace quello che ho fatto in questi anni. Progettare oggetti piccoli come gioielli, sedie, vasi d’argento, lampade… e vederli realizzare velocemente. Mi piace pensare al packaging che li vestirá, alle parole che li racconteranno, alle vetrine dove saranno esposti… É un unico progetto, complesso e spesso molto coinvolgente.

Ho voglia di pensare a persone che abitino degli spazi creati da me. Immaginare di cambiargli la vita costruendo le loro case.
Una casa nuova può rendere felice chi la abita o farlo sentire irrimediabilmente triste. Può dare l’avvio a un nuovo pezzo di vita o imprigionare in una sorta di gabbia finale.
Mi piacciono le case che hanno un’anima, quelle che per un qualche strano caso hanno messo insieme progettista e committenti intorno ad un’idea, quelle che sono nate, prima ancora di uno scarabocchio su di un pezzo di carta, da una relazione intrigante.

Mi é capitato di vivere per diciotto anni in una casa magica (nell’immagine la planimetria) mentre si stava pian piano decomponendo.
Mentre la abitavo il proprietario, un ufficiale di marina, mi raccontava infinite storie dei tempi del progetto, delle intuizioni dell’architetto veneziano suo amico che l’aveva progettata. Della relazione controversa che si era stabilita tra loro.
Non c’era mai stata l’opportunitá di conoscere questo collega più anziano che avevo cominciato a stimare vivendo tra le mura della “nave” come la gente del paese chiamava quei muri curvi.
Incredibilmente però, dieci anni dopo la morte del mio padrone di casa e dopo anni che non abitavo piú lì, l’ho incontrato per caso il mio architetto veneziano e ne sono diventato anche un po’ amico.

Che belle le case capaci di regalare emozioni alla vita delle persone che le abitano e a quelle che le guardano da lontano.
Le mie case sono alte come torri oppure si sviluppano quasi sotto terra. Sono uno striscio di vetro lucente che taglia la collina o pareti mute di sassi neri. Prismi simmetrici da abitare salutandosi dalla finestra. Cubi di vetro lasciati in mezzo al bosco o pareti lunghissime che si avvitano in spirali infinite.
Sono finestre immense o pertugi larghi come fessure, porte dalle forme strane e muri bianchi.

Aspetto chi sappia guardare un pezzo di cielo e rischiare tanto da essere felice.

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