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IMPERFEZIONI PLASTICHE

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Il fascino dell’imperfezione non è per tutti i materiali, c’è materia e materia.
Diamo per scontato che siano i materiali naturali come i legni, le pietre, i metalli e i tessuti a mostrare il loro lato più vitale nelle imperfezioni.
Certo i nodi del legno, le sue fessurazioni, le scalfiture e i cambi di colore dovuti all’uso e al tempo lo rendono ancora più piacevole e vivo. Un oggetto di legno racconta la sua storia e ha i segni dell’uso che se ne è fatto. Molto spesso è molto più bello vecchio che nuovo.
Le pietre sono migliaia di anni che raccontano la nostra voglia di bellezza. Sculture, cattedrali, gioielli col tempo e con l’uso diventano vivi. Portano i nostri segni addosso e noi possiamo andare a cercare il ricordo di chi siamo stati nelle crepe, nelle scheggiature, nelle superfici consumate.
Vi sono invece materiali di sintesi verso i quali spesso non sappiamo come porci, non sappiamo che valore dare ai segni e alle imperfezioni dovute alle lavorazioni, all’usura, al trascorrere del tempo.

Le plastiche sono ovviamente al centro di questa riflessione.
Per plastica intendo un mare di materiali anche molto diversi tra loro che gli esperti preferiscono catalogare come materiali polimerici.
Se ne avete voglia fatevi una gugglata e vi si aprirà un mondo!
A me interessa quanto siamo disposti ad accettare i segni dell’usura delle materie plastiche, le imperfezioni della loro costruzione.

Partiamo dal fatto che un prodotto realizzato, poniamo caso, con un processo di stampa rotazionale del polietilene, necessita spesso di una finitura artigianale per mostrare superfici “perfette”.
Quindi non è possibile raccogliere  tutti gli oggetti o gli arredi realizzati in plastica sotto lo stesso tetto.
Ci sono grandi idee realizzate su splendidi progetti, con grande cura e altre invece di nessun valore e davvero dozzinali.

Chiaramente soltanto le prime meritano di star qui a discutere delle loro imperfezioni…
Spesso sono oggetti così solidi che dureranno in eterno, di sicuro più di noi… e già questo ce li fa amare e odiare allo stesso tempo.
Sta passando adesso la prima generazione che lascerà in eredità a figli e nipoti poltroncine in polietilene e contenitori in ABS, di cui sono fatti per esempio i mattoncini Lego.
Credo che anche gli oggetti in plastica possano raccontare storie di traslochi e cambi di destinazione d’uso con i segni lasciati dal tempo e dall’incuria.

Non è possibile pensare che oggetti che fanno parte della nostra cultura, magari progettati da designer di fama internazionale come Joe Colombo, Achille Castiglioni o Gae Aulenti, siano da buttare via perchè macchie, abrasioni e striature ne hanno cambiato l’aspetto.
Vorrei capire, al di là del modernariato, oltre il valore storico di questi oggetti, che emozioni sono ancora in grado di suscitare i vecchi oggetti in plastica che abbiamo in casa.
Saremo tra i primi ad avere consapevolezza di questa mutazione generazionale.

Solo recentemente abbiamo tolto alla plastica il marchio infamante di simbolo del consumismo per scoprire la sua vocazione ecologica.
Ieri era uno dei materiali più inquinanti e oggi invece salva le foreste sostituendo il legno in molti usi.
Evviva la plastica!

I TRASFORMISTI

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Tra i tanti modi di affrontare il progetto di un oggetto, di qualunque tipo, mi ha sempre divertito molto pormi nell’ottica di come si potrà trasformare. È un gioco a sorprendere… E a me piacciono molto le sorprese… almeno quelle belle!

Gioielli che si moltiplicano e racchiudono in sé due o tre gioielli diversi.
Sedute che si transformano, si allargano, si stringono e cambiano colore.
Lampade che cambiano forma e luce.
Tavoli che si aggregano e disintegrano, si allungano e si piegano.
Ecco qualcuno di questi oggetti intriganti, tanto per fare qualche esempio importante:

– CAMPODORO  il tavolo che si scompone e ricompone di Paolo Pallucco per De Padova.

– MULTICHAIR  la poltrona di B-LINE progettata da Joe Colombo. Un giocoso, splendido modo di cambiare punto di vista sul mondo!

– WINK –  la poltrona di Cassina disegnata da Toshiyuki Kita, chaise-longue e tutto quello che volete…sapendo che in realtà è un topo! Ma non ditelo a nessuno che ve l’ho detto.

 – TRASFORMISTI  Autentica magia! Collane, orecchini e tanti altri gioielli “trasformisti” inventati da NANIS (anche col mio piccolo contributo).

  UTO  I coni di Foscarini disegnati da Gerard Sanmartí e Gabriele Schiavon. Da appendere agli alberi o sopra il tavolo in cucina, oppure da lasciare a terra… magari raggruppate in un gran fascio. (ma le lampade sono tutte un po’ trasformiste… si accendono e spengono!)

I Trasformisti sollecitano la creatività, come giochi ci fanno tornare bambini.
Sono i veri protagonisti del DESIGN EMOZIONALE.

I TRASFORMISTI COMUNICANO!
Tutti gli oggetti che hanno questa vena ludica comunicano già da soli.
In vetrina attirano l’attenzione, stupiscono e si fanno ricordare. Forniscono mille spunti per presentarsi al pubblico sia nel punto vendita che su tutti i mezzi di informazione.

I TRASFORMISTI SONO IL REGALO PERFETTO… EMOZIONANO!

 

IL VUOTO DA NON PERDERE

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Il vuoto, lo spazio dilatato, è segno di importanza!

Sto impaginando un giornale aziendale. Ho scelto un formato quadrato, grande, da piegare in quattro. Non è la prima volta che uso questo formato ma adesso voglio lasciare vuoto almeno metá dello spazio che ho a disposizione in modo che le immagini e i testi occupino le pagine come personaggi su di un palcoscenico.

Tante pagine, quattro volte più grandi di un A4, e un sacco di spazio.

Un paragrafo viene evidenziato dalle righe vuote che lo incorniciano, la pagina bianca mette in risalto l’inizio di un nuovo capitolo. Più grande è il vuoto più i segni grafici sono forti e pieni pathos. Una foto isolata a cui giustapporre un blocco di testo giustificato a sinistra e nient’altro.

Lo spazio vuoto dà importanza a tutto.
ECCO DIECI VUOTI DA NON PERDERE:

– IL VUOTO IN VETRINA
L’esposizione in qualsiasi ambiente e per soddisfare qualsiasi richiesta necessita di superfici omogenee, di spazi dilatati, di oggetti isolati.

– IL VUOTO NEL DEPLIANT
La grafica del nostro depliant deve avere spazi vuoti, pagine bianche, grandi immagini isolate.
Ciò che mostriamo e vogliamo comunicare è importante e merita di non soffocare.

– IL VUOTO NELLE IMMAGINI
I nostri prodotti e la nostra azienda devono avere tutto lo spazio che meritano nelle immagini con cui comunichiamo. Scegliamo sfondi omogenei ed evitiamo come la peste i sovraffollamenti.

– IL VUOTO DA ABITARE
Se ne abbiamo la possibilità scandiamo con vuoti gli spazi che abitiamo, la casa e i luoghi del lavoro.

– IL VUOTO COME SILENZIO
Il silenzio è il vuoto per eccellenza, infatti nel vuoto non si propaga nessun rumore.
Togliamo le musiche di sottofondo che non hanno motivo d’essere e immaginiamo la forza del silenzio.

– IL VUOTO DELLA FORMA
Disegnare un oggetto significa trovare un equilibrio di forme. Tutto ciò è assenza più che moltiplicazioni di segni.
Isoliamo la curva sinuosa che abbiamo disegnato per lo schienale della sedia, per il manico del bricco o per l’elemento clou della nostra ultima collezione di gioielli.

– IL VUOTO COME ESSENZA
Il nostro logo dovrà parlare di noi alla prima occhiata.
Liberiamolo da tutto ciò che non serve.

– IL VUOTO COME ASSENZA
L’assenza di sovrastrutture, di coperture, di mascherature… il vuoto come assenza del superfluo.

– IL VUOTO NEL WEB
Abbiamo paura che la home page del nostro sito sia troppo vuota?
Proviamo invece a pensarla quasi vuota davvero.
In mezzo al surplus di immagini e parole che inondano tutti forse sarebbe più visibile e utile.

– IL VUOTO COME BUIO
Un negozio buio? Emozionante e difficile!
Il buio dovrebbe essere usato così come dovremmo usare la luce. Con attenzione e consapevolezza.

Il buio, la luce, il vuoto e il pieno, la rarefazione e l’affollamento, il silenzio e il rumore o la musica… sono tutti elementi indispensabili per progettare gli spazi e gli oggetti e per presentare e comunicare le idee e i prodotti.
Dobbiamo ricordarci di usarli e imparare a calibrarli.

ATTENZIONE!
Prima di fare il silenzio e il vuoto, prima di creare spazio intorno a qualcosa, assicuriamoci che quella sia esattamente la cosa che vogliamo comunicare e far vedere. Accertiamoci che meriti davvero tutta questa attenzione e vestiamola come si deve.

Le forme del cibo

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Mi è capitato in mano un articolo sulle ragioni delle forme del cibo.
Testo colto che prendeva spunto dalla storia della cucina.

Mi ha fatto sorridere pensando a una lezione ad Architettura tanto tempo fa. Mentre si parlava di packaging, di pomodori geneticamente modificati per crescere già di forma cubica, belli facili da impilare, il mio amico e compagno di corso Gio dal fondo dell’aula aveva interrotto la lezione dicendo che la stessa cosa si stava provando a fare con le galline… per le uova.
Attimo di titubanza dell’insegnante… e risata generale con relativo “vaffa” del prof all’indirizzo dello spiritosone là in fondo.

In tempi in cui il pubblico si orienta verso cibi bio e le imperfezioni che ci regala la natura sono ben viste come testimoni di qualità, c’è tutto un mondo che ruota intorno all’invenzione di nuove forme di cibi, di piatti, di strumenti per cucinare e alle immagini con cui comunicare tutto questo.
Se perfino la matematica e i frattali ci chiariscono la  forma del broccolo che abbiamo nel piatto non sembrerà strano che le aziende più interessate al social marketing, al design, al packaging e a comunicare le loro nuove leccornie siano proprio quelle della produzione di alimenti.

Va da sé che schiere di fotografi, architetti, designer, art e copy si sono gettati su questo immenso mercato.
Da Giugiaro che per primo fa il restyling ai maccaroni perché prendano meglio il sugo, ai packaging avveniristici di uova, latte, burro e affini. Immagini tanto patinate da intimidire anche Kate Moss che non riesce a mettere in ombra nemmeno la mozzarella.

Cibo da disegnare, fotografare, impacchettare, comunicare e perfino cibo da indossare.
In questa torrida estate da ghiaccioli strani dopo la mostra “La forma del gusto” al MART di Rovereto due anni fa si è appena chiusa “Gioielli in tavola” nel neonato Museo del gioiello in Basilica Palladiana a Vicenza. 
L’evento curato da Livia Tenuta e Viola Chiara Vecchi ha messo in mostra gioielli di ogni foggia legati al tema del cibo e della tavola. Gli spaghetti in resina di Gaetano Pesce, i blob ring e le Chocolate boule di Barbara Uderzo e tante altre immaginifiche chicche hanno riproposto il cibo e la cucina come splendidi giochi simbolici.

Ci risentiamo presto per parlare di design, packaging e scrittura…
Non solo riguardante il cibo.

Nel frattempo se vi piace potete leggere anche:
FOOD PACKAGING – STORIE DI GUSTO

 

Nell’immagine “posate d’artista” di Bruno Munari

DESIGN E COMUNICAZIONE

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Design e comunicazione dovrebbero andare a braccetto!

Sembrerà lapalissiano ma è molto più facile comunicare un oggetto con un progetto interessante alle spalle, ricco di contenuti,  magari sviluppato pensando che poi quel affare lì dovrà essere descritto, fotografato… che parlare, scrivere, fotografare, filmare un oggetto buttato là, nato da un progetto raffazzonato senza alcuna consapevolezza che poi dovrà essere comunicato.

Meglio progettare pensando già a dare visibilità ai punti forti del progetto. Va da sé che quello che stiamo progettando dovrà avere elementi di forte differenziazione, qualità evidenti, caratteristiche importanti su cui lavorare con la consapevolezza che quelli saranno i temi che useremo per dare risalto al nostro oggetto disegnandone il packaging, gli espositori, scrivendone, fotografandolo e descrivendolo in tutte le occasioni e su tutti i mezzi di comunicazione.

La funzionalità e l’ergonomia saranno importanti, ma dovranno balzare agli occhi. Il colore e la forma saranno gli elementi che la fotografia potrà usare con maggiore efficacia se avranno elementi di originalità evidenti. I materiali, i processi produttivi, il ciclo vitale dell’oggetto con le sue caratteristiche di sostenibilità, la sua utilità o forse la sua “inutile” bellezza… sono solo alcuni degli infiniti elementi che possono trasformare un oggetto in un vero e proprio mezzo di comunicazione per sorreggere la propria capacità di vendita e il successo dell’azienda che l’ha prodotto.

Perché tutto ciò avvenga occorre una scintilla, un’idea che caratterizzi l’oggetto in questione, che lo renda quanto più possibile unico nel panorama del suo mercato.

Qualche esempio in cui design e comunicazione hanno formato una accoppiata vincente?

SACCO, la poltrona di Zanotta disegnata da Gatti, Paolini e Teodoro nel 1968, un oggetto diventato protagonista di film e romanzi. Un’idea, un progetto così ricco di contenuti da continuare a produrre significati diversi in tutti questi quarant’anni.

La lampada ARCO, disegnata da Achille e Piergiacomo Castiglioni per Flos nel 1962, mette insieme materiali lussuosi, una forma elegantissima e soluzioni funzionali di dettaglio perfette. Un progetto rivolto ad  illuminare con poetica precisione. Certo!  Ma soprattutto “illuminato” dall’idea geniale di eliminare il vincolo dell’ ancoraggio al soffitto, tradizionalmente al centro della stanza, con la possibilità di spostare la lampada liberamente.
ARCO è ancora un punto di riferimento per il mercato dell’illuminazione.

Potremmo scriverne una lista infinita di oggetti, più o meno belli, più o meno funzionali e utili, tutti con quel quid che li ha trasformati in totem comunicanti. Oggetti che spesso hanno dato vita a un vortice creativo di continui rimandi tra design e comunicazione col risultato di moltiplicarsi in nuovi oggetti e nuovi messaggi.

Visto che viviamo in un mondo superaffollato di parole scritte, parlate, urlate, fotografie e immagini in movimento, riviste, libri, film, e il mare magnum dei Social Network che come una spugna assorbe tutto e lo moltiplica all’infinito, dovremo provare a dotare i prodotti che vogliamo vendere di una personalità che si possa comunicare senza dover ricorrere alla solita aria fritta!  

Pensiamoci mentre progettiamo.
Il primo strumento di comunicazione di un’azienda sono i suoi prodotti.

MANAGER E DESIGNER – la guerra infinita

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Nelle aziende orientate a produzioni di design, o dove si instauri una relazione  tra manager e designer, specie se questi ultimi sono consulenti esterni, si ha la percezione di uno scontro, di una sorta di guerra tra figure contrapposte.

Perché succede?

Una buona ragione è che quasi sempre non ci vediamo per quello che siamo ma attraverso il filtro di stereotipi. Incaselliamo tutto per semplificarci la vita e giudicare velocemente così da prepararci a quello che ci aspetta.

Allora il designer per il manager  è un personaggio creativo, giocherellone, irrazionale, scostante, carente di senso pratico che guarda solo a raggiungere risultati estetici spesso stravaganti. Dall’altra parte quelli come me, designer e creativi in genere, confessiamocelo una buona volta, quando incontrano direttori commerciali, direttori marketing e simili fanno vestire agli interlocutori i panni di aridi calcolatori ultrarazionali, insensibili e cinici, incapaci di distinguere la curva da una retta.

Ovvio che si rischia l’incomunicabilità, lo scontro frontale e la paralisi.

La figura del direttore artistico spesso mira proprio a mettere in relazione mondi così lontani facendo da mediatore e da interprete di linguaggi distanti.

Le aziende di fronte a questo possibile impasse si dividono in due tipi. Quelle che rischiano e quelle che invece no! Neanche morte!

Alle aziende che rischiano piace mettere insieme figure anche molto diverse tra loro per carattere, formazione culturale ed esperienze ottenendone in cambio lo sviluppo di prodotti  innovativi e leadership nel proprio segmento di mercato a fronte della fatica di una mediazione continua e del rischio di allungare i tempi decisionali.

Le aziende che non vogliono rischiare blocchi decisionali mirano a circondarsi di collaboratori con formazione e  caratteri simili rinunciando a quel surplus di creatività che regala la diversità. Così se ne stanno tranquille e decidono in fretta quello che avevano già deciso anche l’anno prima.

A dir la verità il mondo non è così  mal assortito!
Nel mio confrontarmi quotidiano con le piccole e medie aziende venete ho scoperto che spesso qualche direttore commerciale è più creativo di due designer messi insieme e che viene apprezzata tanto la mia capacità di affrontare problemi  tecnico–economici quanto la mia piccola vena di follia.
Alla fine il bello del gioco è andare oltre gli stereotipi, imparare a conoscersi, apprezzare le differenze e senza perdere tempo darsi quello necessario a far nascere qualcosa di buono.

PENSIERI IMPURI INTORNO AL DESIGN di UNO SPREMIAGRUMI

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Pensavo al design… a quando si disegna un oggetto…
Al product design…Così in generale…
Pensieri strani… pieni di contaminazioni… e mi è venuto in mente Juicy Salif, lo spremiagrumi disegnato da Philippe Stark per Alessi 25 anni fa.
Non c’entra il battage pubblicitario di questo venticinquennale, nè il nome stucchevolmente famoso del designer francese, nè la fama dell’oggetto e della marca.
Mi piace questa scultura che qualcuno si ostina a pensare utile. L’ho amata da quando è comparsa sulle riviste e nei negozi senza che se ne capisse bene l’utilità.
Un mostriciattolo perfetto da far proliferare in film di fantascienza sanguinolenti.
Ma perché ha avuto così tanto successo?
Proviamo a carpirne il segreto.
È semplice!
Elementare, compatto, lucido, un solo materiale. Anche per il Juicy vale l’aneddoto poco originale che sia nato da uno scarabocchio su un tovagliolo di carta al ristorante.
Non ha bisogno di istruzioni.
È bastato fotografarlo con mezzo limone in testa e si è capito tutto.
È facile da pulire.
Basta infilarlo sotto al rubinetto!
É innovativo.
Chi l’aveva mai visto uno spremiagrumi così?
È ergonomico e in larga misura accessibile a tutti.
È divertente!
Sembra un giocattolo spaziale!
È sexi.
La sua forma fallica sorretta da quelle zampe da insetto alieno me lo fanno accostare al rompighiaccio di Basic Instinct anche se quello era solo uno spillone.
È bello.
Dite la verità! In quanti l’avete comprato pensando di usarlo?! Nel 99% dei casi fa da soprammobile, fermacarte, porta foto… e tanto altro!
Ecco! Per me lo Juicy Salif riassume in sé tante delle regole che fanno buon design.
É semplice, facile da usare e da pulire. È innovativo, si comunica e pubblicizza da solo. È ergonomico, divertente e… Soprattutto è bello! Così bello da farci dimenticare tutte le altre sue qualità!
Un esempio da copiare… Provando ad applicare il metodo Juicy ai nostri progetti.
Nel frattempo il mio… me l’hanno fregato!
Questo post di sicuro non è una marchetta… Ma fossi Alessi ci penserei!!!

Siediti! 10 sgabelli originali

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Gli sgabelli sono pezzi d’arredo che mi hanno sempre attratto.
Un oggetto strano, fuori scala, in genere non molto comodo, in cui non ci si siede mai completamente ma con mezza chiappa fuori e le ginocchia che sfiorano il pavimento.
Gli sgabelli funzionano a metà. Metà sedute e metà giocattoli, metà seggiola e metà scaletta e… metà contenitore e… metà chissà quante cose!
Coloratissimi, griffati, preziosi o assolutamente anonimi sono oggetti che si prestano ad un regalo importante. Non per il prezzo, che magari quello da due lire è fantastico, ma perché sono oggetti che resistono ai traslochi, alle intemperie della vita e capita che il nipote stia seduto sullo stesso sgabello che aveva usato il nonno che ora gli sta raccontando la storia.

Ho scelto 10 sgabelli dalle forme strane, progettati da designer più o meno famosi, che potrebbero diventare presenze familiari, ironiche, divertenti o rassicuranti vagando tra le stanze delle nostre case… Trovando l’ ambiente giusto soprattutto nelle camerette dei bimbi… su cui, mi auguro, appoggeranno i piedi da vecchi.

Nota: ho volutamente omesso i nomi delle aziende produttrici e dei progettisti… è tutta gente già troppo famosa per soffrirne… e comunque, se vi interessa dateci una gugglata e siete a posto.

1 – MEZZADRO – Non poteva che essere lui ad aprire la serie. Una icona del design italiano. Una scultura moderna.
Il sedile da trattore finito nei salotti buoni di mezzo mondo.

2 – SELLA – Stesso padre, stesso produttore, buona per una telefonata e… per farsi guardare.
Dedicata a chi piace essere sempre… in sella!

3 – VASI/SGABELLI – Coloratissimi vasi doppio uso. Dedicati da una grande azienda ad un grande designer… indovinate! Per decorare la casa e metterci un fiore!

4 – HUG – Un tronco e una fune colorata per trasportarlo come fosse una borsa. Funziona anche da fermaporta e all’occorrenza da oggetto contundente.
Perfetto per il prato davanti casa.

5 – STOOL – Un altro di quelli davvero famosi. In legno di betulla, dalla Finlandia con furore!

6 – BUBU – Divertente come il suo nome. Oltre le apparenze nasconde un pancione capiente.

7 – BENT BUTTERFLY – Della celebre Madame condivide anche la provenienza. Le linee morbide delle sue poetiche ali sono in noce.

8 – SIEDI–TEE – Giocherellone già nel nome! Come sedersi su una pallina da golf…

9 – SEDILSASSO – Un ossimoro, artificialmente naturali, visivamente macigni, morbidi e leggerissimi al tatto.
Però il mio grosso, rotondo sasso del Brenta è un’altra cosa!

10 – THE END – Non si poteva finire diversamente.
Morbida lapide concettuale.
Per sedersi, meditare e fumarsi un’ultima cicca… alla faccia!

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Della bellezza, della verità e di altre scemenze!

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La bellezza è verità, senza  verità non c’è bellezza!
Questo è un pensiero molto semplice che mi gira per la testa da sempre.
Non me ne frega niente delle teorie  e degli aforismi di letterati e filosofi più o meno colti.
Non passa secondo che ci si scontri con post, articoli di giornale, trasmissioni TV in cui si parla di bellezza. Bellezza femminile, l’unica contemplata dai mezzi nazionalpopolari e anche dagli altri. Roba da estetiste, da parrucchiere, da giornalisti di femminili, da chirurghi plastici.
Della  bellezza  delle nostre case, degli oggetti di cui sono piene, dei giardini che le circondano, delle auto e perfino della nostra anima si occupano riviste di settore che sviscerano con chirurgica competenza ogni aspetto delle tecniche con cui si costruisce la  bellezza.

Artifici, trazioni, coperture, sfumature, sovrapposizioni, mascherature, aggiunte, dissimulazioni… Un armamentario causa di sfaceli ovunque. Se torniamo per un attimo al consumato tema della  bellezza femminile troviamo decine di esempi di bellissime donne che per inseguire l’archetipo di una bellezza  inesistente si sono trasformate in mascheroni inguardabili.

La finzione, il tentativo idiota di riprodurre un qualche concetto astratto di perfezione produce sempre inesorabilmente sfaceli grotteschi.

Così per la bellezza che attribuiamo alle persone, come per tutto il resto… architetture, oggetti, paesaggi, libri, film, sentimenti…
La bellezza non è aggiungere ma  togliere.
Togliere  il superfluo, pulire dall’inutile, far riemergere l’originalità, isolare, decontestualizzare.
In questo modo si esaltano le forme, si dà forza.

La nudità di un corpo, la pulizia diun muro, un prato, sono in sé belli. Tragicamente spesso non li sappiamo guardare, non riconosciamo la loro bellezza e i nostri tentativi di trasformarli in qualcosa di “bello” spesso ne fanno disastri.
Come apprendisti stregoni pasticcioni, incapaci di isolare e ammirare la bellezza esistente, pretendiamo di modellarla e la incrostiamo di ceroni, intonaci, vernici e, croste.

Non che sia proibita qualsiasi azione creativa, persino decorativa, ma  dobbiamo coltivare la consapevolezza  della nostre azioni.

Il decoro potrà essere essenza del progetto, un unicum, in cui tutti gli elementi sono elementi decorativi e funzionali al tempo stesso. Pensiamo alle auto sportive in cui il vento disegna l’aerodinamica e scolpisce delle forme bellissime.

Oppure gli interventi estetici decorativi potranno essere tra le varie opzioni con cui l’oggetto sarà presentato sul mercato.

L’importante sarà far trasparire la chiarezza del progetto…
La verità della bellezza!

Progettiamo insieme una nuova collezione?

Ispirazione. Cos’è? Cosa c’entra con il design?

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Ispirazione roba strana. Da poeti ottocenteschi con la tisi.
Ma da dove viene la mia ispirazione?
Le cose che disegno, siano gioielli, sedie, bricchi d’argento o flaconi spray, vengono dalle mie mani e dalla pancia, qualche volta vengono dalla pioggia, dal fuoco e dal vento.
Se immagino una nuova seggiola, un tavolo, una lampada o una borsa insolita, l’odore dei materiali, la consistenza delle loro superfici, sia cuoio, ferro o legno, si mescolano con l’umore della giornata, il suono e le parole di una canzone, il riflesso di uno specchio, l’immagine di una donna… e poi negli oggetti che ho intorno, qualcuno perfetto, come un puntapanni di legno, una forbice, un rotolo di nastro adesivo…
Ma lo sapete quanti tipi di forbici esistono? Decine e decine di forme per compiere lo stesso gesto su materiali e in modi diversi.
Accorgersi che sarebbe possibile trasformare una forbice per farle tagliare in un modo diverso  un qualche nuovo materiale… è ispirazione.
Il mio è un lavoro che non ha pause, non finisce la sera alle otto, quell’immagine perfetta può presentarsi in qualunque momento.
Qualcuno la chiama ispirazione e ne ha un’idea strana. Quella di un personaggio perso con la testa tra le nuvole che aspetta la rivelazione… Cazzate!!!
Sì, qualche volta sembra avvenga così ma vi giuro che se non state almeno otto ore al giorno a disegnare, cercare, costruire, modellare, provare, scartabellare, discutere… inutile sperare, non vi apparirà nulla.
Bisogna accumulare, accumulare e accumulare informazioni, immagini, sensazioni e informazioni tecniche, sperimentare forme e gesti, scoprire e capire le forme delle cose che assomigliano all’idea dell’oggetto che vorremmo creare. Andare a guardare cosa hanno fatto quelli bravi, quei designer, quegli architetti che amiamo da sempre, gente che è stata capace di dare forma a dei mondi. Padri che ci sono capitati  addosso e altri che ci siamo scelti.
Per quel che mi riguarda, Carlo Scarpa, come ogni architetto veneto che si rispetti. Un mago della materia, delle forme, della poesia della natura, un artigiano colto. Rituale, ogni anno, la visita alla tomba Brion e alla sua. Poi Aldo Rossi, mio professore negli ultimi esami di composizione architettonica che mi hanno accompagnato alla laurea. Un padre scelto per il suo insegnamento rigoroso e la capacità di indicare le strade della trasgressione. Ho amato alla follia i suoi disegni, i suoi plastici, la sacralità del suo studio a Milano vicino alla torre Velasca. La caffettiera Conica resta il mio fermacarte preferito.
Ecco! Un grande a cui ho avuto la fortuna di stare vicino. Un Pritzker Prize (l’oscar dell’architettura) morto troppo presto, quando avrebbe potuto darci ancora così tanto.
Design ricerca e ispirazione per me sono fatti anche di questo, di gente che ha lasciato un segno, perché incontrata davvero o incontrata sui libri o nelle cose che hanno fatto.
Poi si cancella tutto e resta quel che resta, roba solo mia.
Un segno, un ricordo, la forza di uno scarabocchio, la lucentezza di una superficie, la trasgressione di un taglio, la banalità di una simmetria.
Piccoli segni e progetti che si accumulano e diventano la caratteristica di uno stile, il segno di una personalità.
Metto a disposizione tutto questo mondo a chi voglia fare ricerca e sviluppare idee. Decenni a cercare di capire cos’è bello e cos’è brutto, cosa funziona e cosa no, le cose che mi piacciono e quelle che non sopporto  e soprattutto perché. Un modo di mettermi ad ascoltare le necessità, i sogni, le ambizioni, i progetti, farli miei e sapere dove andare a far nascere l’ispirazione.
Alla fine, mescolando tutto, l’esperienza e la sensibilità di artigiani e imprenditori con le mia storia creativa, mettendo insieme la mia e la loro ispirazione, dopo un bel match di solito vengono fuori idee interessanti.
Cose che funzionano davvero.

Nell’immagine  –  anello Crumple – Paolo Marangon design for NANIS
(la sinuosità e la sensualità delle curve – l’archetipo femminile)

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